Testo in pubblicazione presso la Società Italiana di Filosofia Politica:
Come può reggere una democrazia senza interlocutori? di Giulio M. Chiodi
Esordisco con toni forti e piuttosto apodittici. Fondare un governo sul principio “una testa un voto” e contemporaneamente inseguire una società che impedisce il formarsi delle teste ha per esito: voti senza testa, farsi preda degli speculatori, cadere nelle mani di orde anarcoidi. Detto in altri termini, se un sistema democratico non si regge su una società sufficientemente civile nasce corrotto o si corrompe; ma nel contempo dobbiamo prendere atto che una società civile richiede una cultura etica, mentre noi viviamo in cultura molto poco etica (e tanto meno epica), ma marcatamente patetica.
Proseguo, ora, con toni più distesi. Che le democrazie siano soggette a corruzione e a degenerare in demagogie o in un loro speciale genere di oligarchie non è certo fenomeno che si esaurisca nel solo ambito dell’antichità greca. E’ vero che la politica si presenta come una realtà altamente complessa, ma è altrettanto vero che, laddove è costretta a compiere scelte, si deve muovere sulla base di idee molto semplici o elementari e facilmente comprensibili a chiunque. Attenersi a questo principio è diventato oggi difficilissimo, se non addirittura impossibile. Nel riprendere in chiave attuale l’antico tema della corruzione in cui in generale cadono le democrazie, terrò conto, ma solo in parte, del caso italiano; questa specifica attenzione dipende certo da ovvie prossimità personali, ma soprattutto dalle valenze emblematiche che riveste l’ordinamento democratico instauratosi in un paese che è stato protagonista degli esordi di quella civiltà moderna, alla quale ora la storia pare determinata a chiedere il suo redde rationem.
Ci sono momenti storici, in cui la semplicità o elementarità che ho appena sopra richiamato si appannano; e questo vale ovviamente anche per le democrazie. Ma il nostro sforzo deve essere quello di attenersi il più possibile ai nuclei semplici ed elementari dei problemi, se si vuole esprimere qualcosa di sensato sul campo politico. Alla fin fine sono proprio questi i nuclei su si fonda la politicità. E’ solo in tale direzione che cercherò di svolgere questo mio breve intervento, limitandomi, perciò, a qualche considerazione di macropolitica.
In un mio vecchio studio avevo distinto due generi di democrazia, definendoli rispettivamente democrazia costitutiva e democrazia rivendicativa. La distinzione voleva cogliere due diverse nature etico-politiche, che si possono dire caratteriali e che trovano la loro spiegazione su presupposti esclusivamente storici. Definivo costitutiva una democrazia, quando essa fosse riconoscibile fin dalle origine dello stato a cui appartiene, quando cioè caratteristiche essenziali di un governo democratico fossero ravvisabili già al sorgere della compagine statuale in questione. Si hanno indiscutibili riscontri storici che ci dimostrano che quando una compagine statuale ha preso corpo con forme democratiche fin dalle sue fasi di formazione, il funzionamento della democrazia si radica e si rivela solido e duraturo. Del resto le democrazie costitutive mostrano di essere anche oggi in apprezzabile salute, indipendentemente dall’ampiezza dei territori e della popolazione in cui si esprimono (vedi Stati Uniti d’America, Svizzera, Islanda o San Marino). Nel genere di democrazia che qualificavo rivendicativa individuavo invece quel sistema politico, nel quale era subentrata una forma democratica in un corpo istituzionale già precostituito e retto da governo autocratico o da ordini fondati su sistemi di privilegio. Consideravo questo secondo tipo di democrazia particolarmente esposto all’instabilità, alla fragilità istituzionale, alla conflittualità interna o soggetto ad essere preda della prepotenza dei più forti. Questi esiti derivano dal fatto che l’istanza democratica continua a conservare l’originario spirito rivendicativo che caratterizza questa tipologia, spirito che ha animato i suoi natali, il quale, una volta conquistato il palazzo e dopo aver conseguito successo nell’acquisizione del potere, non si esaurisce affatto, ma mantiene e a volte accresce la sua carica contestativa. Ne consegue che l’ordinamento democratico conquistato su basi di rivendicazione finisce prima o poi per riversare i suoi istinti contestativi soltanto su se stesso, si autocontesta in maniere non puramente autocritiche, ma autodistruttive.
Oggi – con riferimento ad alcune democrazie (chiamiamole pure genericamente così), di recente instaurazione ed alquanto improvvisate, in paesi che non ne avevano mai avuto nemmeno i minimi sentori – si può aggiungere una variante della seconda tipologia, quella della democrazia importata o anche della democrazia imposta, nella quale è molto probabile che i difetti manifesti delle democrazie rivendicative si riproducano in modalità particolarmente aggravate ed alteranti. Posto che si evitino i pericoli disgregativi dell’anarchia, i principali difetti in proposito si possono riassumere principalmente in due, ma riducibili sostanzialmente ad uno solo: il primo è la tendenza alla centralizzazione demagogica e/o burocentrica dei poteri (che di per sé dovrebbe essere in palese contrasto con le istanze democratiche), il secondo è la spinta ad ostacolare la formazione di aggregazioni sociali libere e spontanee, consuetudinarie o a vario titolo associativo-funzionali, che si risolve nell’eclissi dei rapporti pubblici, tipici di una società civile; e questo secondo aspetto (che di per sé è una palese negazione di un presupposto e di un supporto essenziale al mantenimento di strutture democratiche), è da ravvisarsi anche nel diffondersi di spontaneismi aggregativi, di carattere compensativo o suppletivo o contrastivo, che mirano ad inserirsi nelle prassi democratiche di governo.
Ma oggi dobbiamo tenere conto di quel nuovo fenomeno, che si è consueti definire in maniera forse troppo approssimativa “globalizzazione”. Si deve riconoscere che per molti versi si tratta di una realtà che induce a constatare una forte attenuazione delle differenze riscontrabili tra democrazia costitutiva e democrazia rivendicativa. È in particolare agli effetti del fenomeno in questione che dobbiamo porre attenzione, per trarre le più importanti indicazioni in merito alla odierna crisi della democrazia. Rimanendo sul piano della macropolitica, sono evidenti a tutti le motivazioni primariamente economiche che determinano le grandi migrazioni frammentarie e incontrollate in atto e la frammistione malamente integrantesi di vaste compagini sociali.
Premetto alla considerazione di questo fenomeno un’osservazione generale, che lascio sullo sfondo. Ho l’impressione che le numerose analisi in merito alla pluriversa condizione mondiale – ma che colpisce maggiormente i paesi dell’occidente – non abbiano ancora sufficientemente rilevato una distonia, o se si preferisce una discrasia, nei modi di valutare il legame tra economia e politica. “Questione di modelli interpretativi”, sogliono dire gli analisti empirici. L’impressione, che intendo esprimere, è che allorché si parla in termini politici del fenomeno della globalizzazione, la micropolitica, che è politica locale e di aggregati delimitati e particolaristici, è praticamente ignorata, dal momento che si è portati a ragionare in base a principî, a concetti e a strategie generali e mondiali, ad etiche, ad idee di giustizia e di diritti e, naturalmente e giustamente, a programmazioni d’ampio raggio, e a ideologie generalizzanti; si ragiona, dunque, in termini macropolitici. Del resto, è quanto anch’io sto facendo in queste pagine, che però non trattano di economia. Quando si tocca il versante economico delle cose, invece, si tende far riferimento soltanto a circostanze materiali ben precisate e circostanziate, traducibili esclusivamente in realtà di microeconomia. Ne consegue che il politologo affronta l’economia in termini di macropolitica e non di micropolitica, l’economista affronta gli aspetti politici in termini di microeconomia e ignora la macroeconomia; nel contempo entrambi i campi si fanno convergere in un’unica e promiscua valutazione. E’ probabile che vada chiamata in causa qui proprio l’inadeguatezza dei modelli interpretativi in adozione per spiegare in termini di strutture e dinamiche di un sistema politico l’interrelazione tra economia e politica; ma rimane il dato di fatto che questa constatazione relativizza molto tutte le valutazioni formulate in merito. Chiudo questa osservazione di sfondo.
La variegata e tormentata società del presente non è certo interamente spiegabile, ma è certo nitidamente adombrata, sottolineando i fenomeni di “liquefazione sociale” illustrati da Zygmund Bauman: la sua analisi ci permette, almeno, di scorgere come nell’ambiente liquefatto stiano nuotando pescecani e piccole vittime indifese. E rimane da constatare che la cosiddetta globalizzazione assimila ed espande nuovi elementi di instabilità, che sfuggono sempre più alla presa ordinatrice di un’ordinata democrazia. Sotto questo profilo delineerò soltanto quello che mi pare l’aspetto più appariscente che si determina sui rapporti di cittadinanza.
Innanzitutto dobbiamo osservare che quanto più si manifesta la convivenza di disparità sociali e di eterogeneità culturali, come di fatto sta accadendo, tanto più il valore collettivo accomunante diventa il denaro. Il denaro, come valore, è compreso indifferentemente da tutti, dall’autoctono allo straniero, dal ricco al povero, dall’acculturato all’ignorante: le differenze, infatti, sono soltanto quantitative, sono solo il più e il meno, chi ne ha di più e chi di meno, chi niente affatto. Anche il dominio del denaro, evidentemente più di ogni altro, fa parte in senso stretto della liquidità non solo baumaniana e, quindi, della diluizione dei valori, ivi compresi quelli ai quali si rifanno le democrazie.
Ma, detto questo, intendo indirizzare l’attenzione su un aspetto esclusivamente strutturale.
La caduta di confini e il dissolvimento di criteri selettivi autodifensivi da parte delle comunità politicamente organizzate provocano da un lato strette vicinanze e dall’altro nuove e disagevoli distanze.
Quanto alle vicinanze. Si tratta semplicemente dell’accostamento e della fusione socio-territoriale di popolazioni un tempo tra loro lontane e intercomunicanti solo tramite pochi selettori ed ora insediate nei medesimi contesti e sotto il governo delle medesime istituzioni. La mescolanza di popolazioni eterogenee nei costumi, sradicate dai propri ambiti d’origine e confusamente ambientabili nei nuovi produce, accanto a inevitabili e spesso pesanti attriti, osmosi, fusioni e sincretismi etnici e culturali dai tratti instabili e dalle compatibilità continuamente ridefinibili. Se la mentalità genericamente democratica presenta, da una parte, spiccate inclinazioni ad accogliere favorevolmente queste aperture mondializzanti, dato che le aperture sono costituzionali alla sua natura, dall’altra versa in difficoltà sempre più marcate nel gestirle e di conseguenza nell’autogestirsi. Già da tempo, e in maniera più marcata nei paesi in cui la democrazia si è introdotta nella forma rivendicativa, si registra una gravissima crisi della rappresentanza e le nuove dinamiche internazionali la sconvolgono ancor di più.
La crisi della rappresentanza è il fenomeno di crisi più connesso con quello della democrazia contemporanea. La responsabilità principale, anche se non unica, deve farsi pesare certamente sui partiti politici. La rappresentanza, principio basilare della democrazia moderna, ha perduto di rappresentatività e si corrompe degenerando nella ricerca di una rappresentazione, intesa nella piena esteriorità e superficialità espresse dal termine. Sotto il punto di vista della stabilità dei governi appaiono confusi ripieghi e incerti surrogati quelli che affiorano nel sostituire l’idea di democrazia rappresentativa con quella di democrazia partecipativa o di democrazia deliberativa. Il problema di fondo è che il principio della rappresentanza politica in una democrazia non è del tutto ineludibile e che le nuove condizioni sociali, per le motivazioni più varie, hanno mutato l’impostazione della questione della rappresentanza politica. Poniamo tale questione in questi termini: il problema recente era tutto accentrato sul chi dovesse essere il rappresentante e sul che e il come dovesse rappresentare; ora la questione stessa si è estesa e pone domande sul chi e sul come concernente direttamente il rappresentato. Ritorna, sulla base di nuovi presupposti, il vecchio tema dell’estensione del suffragio, che aveva tormentato soprattutto gli statisti a cavallo tra l’ottocento e il novecento. Ma oggi viene messo in dubbio l’intero concetto e rapporto di rappresentanza, che coinvolge soggetti attivi e passivi. Alle responsabilità del partitismo in merito ai disagi in cui versa la democrazia, sulla linea che abbiamo ora indicata, va imputata anche la crisi che ha investito lo stesso ruolo del partito. Qualche cenno su questo punto si incontrerà parlando, qui di seguito, delle “distanze”. Non introduciamo in proposito altri argomenti, pure se strettamente connessi col problema dell’evoluzione polivariante delle società democraticamente rette e incidenti sulla tenuta del sistema democratico.
Quanto alle distanze. Dicevamo che accanto alle vicinanze le condizioni vigenti producono anche nuove distanze. Faccio cenno soltanto a due di esse, che mi paiono assolutamente essenziali.
La prima distanza riguarda le lontananze che si interpongono tra cittadini e cittadini. L’intenso accavallarsi di sempre nuovi criteri relazionali, le trasposizioni reiterate, la provvisorietà di regole di educazione e di rapporti, l’incertezza delle attese e l’instabilità delle aspettative, l’immissione continua di fattori innovativi imposti dall’evoluzione delle tecniche e dei mercati, l’assillo della comunicazione di massa, dei consumi effimeri e dei bisogni artificialmente indotti, la precarietà dei ruoli e delle funzioni di ogni genere e grado frastornano e sconcertano, travolgono, demotivano e stravolgono, compromettendole, le sicurezze esteriori ed interiori, nonché la consistenza delle autocoscienze individuali e collettive, e quindi anche delle cittadinanze in quanto tali. Ne nasce uno stato, spesso perfino nevrotizzato, di incomunicabilità, incomprensione, aggressività, estraneità, indifferenza. Sono i segni dello scollamento e della disgregazione sociale, provocati dall’insufficienza o dalla totale assenza di ideali comuni, di valori fortememente condivisi, di sentimenti di appartenenza, di regole di autocontrollo civile, e sorretti dalla diffusione di generici principî di uguaglianza, privi della relazionalità che li qualifica, ossia semplicemente principî privi di principi. Da qui un’uguaglianza che genera indifferenza (si direbbe bene in tedesco una Gleichheit, che si risolve in Gleichgültigkeit).
La seconda distanza riguarda il divario che si verifica tra i cittadini e le istituzioni pubbliche, soprattutto quelle centralizzate, come sono quelle statuali. Qui ci limitiamo esclusivamente a prendere atto dell’abisso che si è scavato tra cittadino e stato. E’ motivo di meraviglia quanto poco sia stato preso in considerazione, al di là di qualche particolaristica notizia di cronaca, questo aspetto, che mette in gioco non solo la crisi della rappresentanza, ma in assoluto la legittimazione dei poteri pubblici costituiti. Chi o che cosa può colmare questo abisso? Chi o che cosa può di fatto riempire l’immenso vuoto che separa il cittadino dallo stato? Vuoto che isola il cittadino dalla partecipazione alla cosa pubblica, che spesso avverte addirittura come ostile? Che lascia il cittadino solo in balìa di forze che non è in grado in nessun modo di controllare e a volte altresì di comprendere? Di fatto hanno preteso di assolvere a questo compito di collegamento soltanto i partiti politici. Sic et simpliciter! Ma sono stati proprio i partiti politici, centralistici per vocazione, a provocare e ad accrescere il divario tra cittadini e stato, esercitando il monopolio del collegamento tra aspettative private e scelte pubbliche e gestendone gli immancabili clientelismi. E si tenta di superare tale divario principalmente proprio con due mezzi che lo aggravano, e cioè mediante favori clientelari e mediante il burocratismo che ne dovrebbe salvaguardare (frutto, quest’ultimo, di un centralismo, che si dissolve in burocrazie meramente procedurali, con marasmi e coacervi di formalismi pesantemente paralizzanti, istituiti anche per garantire trasparenza!). E ciò, di cui i partiti si sono fatti artefici, è sfociato poi nel mettere in crisi i partiti stessi.
Quanto sto per dire è decisamente critico nei confronti dell’operato dei partiti politici; tuttavia, tengo a precisare, il punto di vista che sostengo si limita ad osservare che la funzione del partito politico, insostituibile per i governi democratici, non deve essere estesa al punto di monopolizzare senza residui l’intera rappresentanza politica.
Il partito politico con la sua pretesa, ufficialmente esaudita, di monopolizzare l’opinione pubblica e il suo esercizio e di farsi carico delle istanze sociali e della loro programmazione, si investe contemporaneamente del ruolo di rappresentare gli interessi dei cittadini e contemporaneamente di governarli, facendosi di fatto loro tutore e al tempo stesso loro gestore, in contrasto con uno dei più elementari principî del diritto. La pervasività dei partiti politici nell’ambito pubblico e privato – o diremmo meglio, data la loro attuale condizione critica, delle compagini partitiche o pseudotali – impedisce radicalmente la formazione di strutture organizzative civili, liberamente articolantesi, e di associazionismi orientati a finalità pubbliche, infiltrandosi in questi, appena se ne delinea la possibilità istitutiva, per controllarne e sfruttarne l’operato. Qualsiasi eventuale formarsi di un’iniziativa sociale o civile che mostri di possedere una portata pubblica si ingolfa nei buroproceduralismi o è esposto all’invasione di ramificazioni di uno o più formazioni politico-partitiche, che mirano a fagocitarlo nella loro orbita. E’ questo un mezzo di neutralizza zione di qualsiasi corpo intermedio, che potrebbe fungere da speciale collegamento con la sfera pubblica superiore. Favorire la sfera pubblica intermedia – non va dimenticato – significa limitare tanto l’egemonia dello stato quanto quella dell’interesse privato, senza i demagogismi in cui inevitabilmente la farebbero cadere le formazioni politicizzate.
Uno dei difetti principali del monopolio della rappresentanza politica da parte delle formazioni partitiche è quello di indurre le rappresentanze ad occuparsi solo delle patologie del sistema ignorandone abitualmente la fisiologia, con cadute nel mero proceduralismo atelico, cioè fine solo a se stesso. E spesso è il partito stesso a produrre le patologie a cui vorrebbe porre rimedio. Ciò accade, perché le compagini partitiche (parlare di partito politico diventa oggi sempre più problematico), una volta ottenuto un suffragio elettorale sufficiente per entrare in parlamento o comunque nel governo di istituzioni pubbliche, si mostrano prive di strategie e si occupano solo di tattiche. Le tattiche possono essere complesse, ma le strategie politiche, ricongiungendomi a quanto dicevo all’inizio, devono essere semplici e precise nei loro obbiettivi; tale semplicità e precisione sono però possibili solo tenendo rigorosamente conto della reale fisiologia del sistema. L’assenza di reali obbiettivi strategici comporta inevitabilmente che nel parlamento siano discussi quasi soltanto i problemi che interessano gli eletti o gli eventuali futuri eleggibili e non già gli elettori, cioè la popolazione, che viene ridotta a mero strumento elettorale. Un caso palese è l’interminabile dibattito italiano sulle leggi elettorali e sulla riforma delle camere. Qui non si cercano gli strumenti adatti agli obbiettivi sociali, ma si fano obbiettivo i soli strumenti. Il prevalere delle tattiche sulle strategie – è spontaneo pensarlo – si dà perché le vere strategie sono solo quelle protese a guadagnare il maggior spazio politico possibile. Fine del potere politico, in tal modo, diventa solo quello di poterlo esercitare.
Col monopolio partitico della rappresentanza, dunque, in un regime di statalismo accentrante, si escludono il sorgere e il consolidarsi di compagini associative, di qualsivoglia natura esse siano, che non cadano sotto il suo controllo; con ciò si troncano sul nascere le energie collettive, che possono dare vita a quelle libere formazioni che concorrono a dare un corpo articolato alla cosiddetta società civile o alle sue più spontanee istanze. In tal modo si finisce per compromettere i presupposti stessi di una democrazia salda ed efficiente, dal momento che una democrazia moderna e lungimirante non è pensabile senza il sostegno di una solida società civile, cioè rivolta a funzioni pubbliche e senza rivestirsi di natura partiticamente politicizzata o statualizzante. Il partitismo, come è ovvio, mira a radicarsi nei tessuti sociali e nelle strutture istituzionali, spesso alimentando programmi o polemiche fittizie, logoranti, polverose, sollevando anche istanze dispersive e falsi obbiettivi, in funzione di formare, per le vie più varie, occasioni di mobilitazione e sacche elettorali. Tipica è la frequentissima produzione di scissioni e di divisioni provocata a danno delle armonie, che spesso si creano soprattutto all’interno di assemblee e giunte amministrative periferiche o di piccoli comuni, sostanzialmente omogenee nei loro interessi; quei contrasti sono in gran parte sollevati in virtù di artificiose e strumentali faziosità di parte. Così come il partito monopolizza la rappresentanza della società, in altrettanto modo si comporta all’interno degli apparati dello stato e dei suoi organismi decentrati. Le rappresentanze a vario titolo partitiche, detto in termini semplici, non si pongono al servizio della pubblica amministrazione, ma se ne servono, considerandola strumentale ai loro obbiettivi di gestione.
E’ anche per spiegare situazioni di tale natura che sono ricorso, a suo tempo, al concetto di democrazia rivendicativa, riconoscendo in questa tipologia la più spiccata attitudine a provocare dinamiche di mobilitazione, di opinione e di programmazione, che poi mostra di non essere in grado di controllare. Può certamente risultare ozioso, per esempio, discutere intorno al quanto e al come in una democrazia come quella italiana il partitismo sia responsabile della scarsa incidenza politica della società civile o addirittura della sua inesistenza oppure al quanto e al come sia la debolezza della società civile a produrre l’egemonia del partitismo. Basti osservare che le medesime compagini partitiche operano, a volte travestendosi nella denominazione, dalle sedi rappresentative nazionali a quelle sopranazionali, dal parlamento fino alla più minuscola e sperduta assemblea comunale, dove anche il più piccolo funzionario locale occupa il suo ruolo non tanto per le sue competenze quanto grazie all’appartenenza partitica o al favore goduto presso gli ambiti politicizzati.
Sta di fatto che nella crisi della democrazia regna una mentalità, che è restìa a concepire dimensioni pubbliche intermedie tra stato e cittadino, che non sottostiano alle influenze di clientele politiche ed elettoriali, improntando gli ordinamenti del governo socio-civile soltanto su due poli istituzionali: quello della famiglia e quello dello stato nelle sue articolazioni amministrative. La famiglia è la sede fondamentale della sfera privata, allo stato nelle sue varie ramificazioni è riservata l’esclusività della sfera pubblica; alle aggregazioni partitiche o a ciò che oggi ne rimane, è affidato ufficialmente l’unico collegamento tra questi due poli, il privato e il pubblico. In un quadro siffatto le aspettative democratiche finiscono per essere sistematicamente eluse. Sostenere e diffondere un modo di pensare che consideri realizzabile una democrazia gravitante soltanto sui due poli dello stato (come pubblico) e del privato o della famiglia (come privato) rappresenta un’ideologia incompatibile con le esigenze di una comunità estesa ed eterogenea, quale è quella in cui viviamo. Non è necessario ricorrere alla filosofia hegeliana del diritto per capire che, se viene meno la società civile come dimensione pubblica, uno stato si governa secondo interessi privati, come se fossero privato-famigliari, così come una famiglia, nei limiti dei suoi mezzi, si sente autorizzata a pensare i suoi interessi infiltrandoli nella sfera pubblico-statuale. Certamente più confacente ed opportuno sarebbe rivolgere l’attenzione allo sviluppo di realtà intermedie (o riferite al territorio, o comunque a vario titolo associative, consorziali e funzionali e così via), quali organi abilitati al collegamento e all’interazione tra corpi istituzionali statuali e società reale, nella classica posizione di corpi intermedi. Utile sarebbe riprendere su questi temi gli studi fondamentali di un Weber o di un Michels o, risalendo più indietro nel tempo, le esperienze di un Tocqueville.
Nella relazione di apertura del presente convegno sulla crisi della democrazia Daniel Innerarity ha rievocato la metafora o l’immagine simbolica, già elaborata da Gerhard Ritter e da Carl Schmitt, del contrasto terra-mare, sostenendo non a torto che l’era della globalizzazione segna il predominio del modello del mare su quello della terra. Stando al gioco delle immagini, sono intervenuto ricordando che oltre al mare e alla terra c’è anche il cielo. Il cielo è il terzo incluso. Con questa integrazione intendevo significare che al buon equilibrio di un sistema politico, e quindi anche di un sistema che si voglia democratico, occorre sempre la presenza di valori superiori indisponibili, non concordati, non imposti, non dipendenti da una messa ai voti popolari, dotati di una loro intrinseca auctoritas, attingano essi alla tradizione o al costume consolidato piuttosto che a una credenza fideistica o a qualsivoglia mito di appartenenza e delle origini. Quando questo principio, terzo e super partes non è sentito nel costume di una collettività, un sistema entra certamente in crisi per conflittualità interne. La presenza del terzo super partes è la fonte delle convinzioni più radicali oppure è il loro correttivo riequilibratore, che colma le carenze ed elide le eccedenze degli ineludibili ideologismi che dominano nelle aggregazioni politico-sociali e che vengono cavalcati ed enfatizzati dalle democrazie che attraversano fasi critiche.
Ho citato la parola latina auctoritas. La democrazia contemporanea, come viene interpretata nella pratica, versa in serie difficoltà nel distinguere auctoritas da potestas (tralasciamo di aggiungere imperium, che qui non è per noi in gioco). Dei due concetti fa un tutt’uno. Ciò la espone costantemente ad arbitrî. E questa non è certo l’ultima delle cause del distacco che in molte guise si verifica tra la classe politica e il cosiddetto paese reale.
I sostenitori acritici della democrazia, del resto, sono portati a sottovalutare un difetto originario di sistema: pensare al popolo come a un’entità sufficientemente omogenea o omogeneizzabile nelle sue disomogeneità. E’ un presupposto per voler concepire il popolo stesso come omologabile secondo regole uniformanti. Ma questa supposizione può reggere per comunità relativamente ristrette e con un tasso sufficientemente elevato di coesione culturale, garantita appunto dalla presenza di comuni principî super partes. Non riscontrandosi tali caratteristiche o dimostrandosene a troppo basso livello, la democratizzazione generalizzata nei suoi criteri di omonomia non può evitare la caduta in soprusi e scompensi, che alterano la natura e gli equilibri degli ordinamenti in vigore. Il suo correttivo sarebbe rappresentato dalla presenza nel sistema da principî autoritativi o da soggetti pubblici non meramente amministrativi che godano di funzioni non soggette alle pianificazioni elettorali politicizzate.
Un sistema ampio, aperto, pluriculturale, pluridimensionale ed esposto a continue e mutevoli dinamiche di relazione è strutturalmente indocile nei confronti di rappresentanze politiche organicisticamente centralizzate, come quelle tendenti a formarsi nell’attuale parlamentarismo, e richiede spazi di coesistenza e di sviluppo autonomi ed eteronomi, che siano nel contempo regolati da direttive non confuse e tempestive. Queste due opposte esigenze (pluralità e coordinamento) non possono mantenere in stabili condizioni di equilibrio il sistema, se non con l’adozione di criteri di eteronomia istituzionale. Ciò significa l’adozione di sistemi misti, che non sono affatto sufficientemente garantiti dalle funzioni della pubblica amministrazione, affidate in base a competenze e non a scelta popolar-elettiva, poiché gerarchicamente accentrate. Il sistema misto presenta certamente alcuni dei vantaggi di ordine costituzionale – che a suo tempo si erano ravvisati anche nel cosiddetto stato misto, anticamente di stile romano e contemporaneamente riscontrabile per buona parte negli ordinamenti anglosassoni – ma esso risponde anche, se concepito in nuove forme adeguate al tipo di pluralità del presente, alle esigenze di partecipazione politica della società reale.
Sul piano pratico questa mistura vuol dire convivenza di autonomismi, territoriali o anche corporativi, associazionistici o subculturali e consorziali, di enti esponenziali regolati e dotati di autorità consuetudinaria o funzionale, e così via (alias corpi intermedi). Sul piano teorico il sistema misto evita la concentrazione del potere in organismi centralizzati, che di fatto si instaura con l’attribuzione di auctoritas e di potestas ad un medesimo soggetto, legittimato solo in quanto democraticamente eletto; il sistema misto, invece, favorisce la distribuzione del potere pubblico tra più soggetti, individuando le adeguate complementarità. Questo vuol dire orientamento di carattere federalistico; come in altre sedi ho avuto l’occasione di sostenere, il federalismo non deve essere inteso come un fenomeno che si risolve in semplici termini istituzionali governativo-amministrativi, ma che dipende prima di tutto da un modo di pensare e di agire dei cittadini: esso è l’espressione di un’educazione e di una mentalità, che definisco appunto federale e che come tale si traduce nei comportamenti sociali e nei modi di rapportarsi alle sfere pubbliche e alle forme di organizzazione civile.
Quanto all’associazionismo, per ottenerne effetti benefici anche a vantaggio delle aspettative democratiche, occorre distinguerne uno buono da uno meno buono, o addirittura cattivo. L’associazionismo buono persegue finalità pubbliche specifiche, territoriali o funzionali per obbiettivi determinati, e costruisce in tal modo reali corpi intermedi aggregativi e orientati a fini esclusivamente civili o ad autorganizzazioni collettive circoscritte; l’associazionismo cattivo è quello che si propone direttamente obbiettivi politici, trasformandosi di fatto in movimento di partecipazione politica. Dico cattivo questo secondo tipo di associazionismo, gravido di conflittualità aggiuntive a quelle interne ed esterne a un paese, perché non funge affatto da reale corpo intermedio in funzione civile, ma da strumento di mobilitazione elettoralistica, che subentra a sostegno delle compagini partitiche, allorché queste entrano in crisi di credibilità e allorché i loro apparati organizzativi e propagandistici sono in difficoltà ad intercettare l’opinione pubblica.
E’ evidente, comunque, che la crisi della democrazia non può essere trattata senza prendere in considerazione anche la crisi dello stato. Le loro sorti, nell’età moderna, si sono congiunte; sia che la democrazia si formi in uno stato, sia che lo formi, sia che si formino entrambi contestualmente. Ma chiamare ora in causa la crisi dello stato ci apre altre problematiche da lasciare ad altre occasioni. Tocchiamo, invece, un ultimo aspetto, che ci porta alla conclusione.
In una società di massa pseudo-comunicante la solitudine e l’indifferenza sono un’esperienza non soltanto individuale, ma anche collettiva. Le compagini collettive, come gli individui, sono soggette a tali esperienze. Anche la democrazia si sta sentendo sola e parla solo con se stessa, dal momento che va perdendo interlocutori, anche perché si è autocostretta, proprio volendosi generalizzare in tutti gli ambiti della vita collettiva, all’isolamento e a porsi come fine a se stessa. Si può cogliere chiaramente questa situazione, se si è in grado di effettuare un’attenta analisi epocale, capace di mettere in evidenza l’impoverimento etico del sistema e la sua entrata in una fase patetica (che normalmente fa seguito al consumo della sostanza etica). Fase etica significa costumi e regole condivisi e rispettati; fase patetica significa venir meno di quei costumi e di quelle regole, sostituiti con la loro ricerca o con la loro esibizione retorica, spesso enfatizzata e sempre svuotata di contenuti. A differenza della condizione etica, che è fatta di interlocutori, la condizione patetica non ha interlocutori e li cerca o se li finge anche per se stessa. Ho la sensazione che la democrazia odierna, almeno in paesi come il nostro, stia esattamente attraversando un momento patetico, essendosi sempre più infiacchito, nei vari ambiti della vita collettiva, o forse nemmeno realizzato il momento etico. E forti concause dell’impoverimento etico vanno cercate nei tentativi di generalizzazione e nel contempo di centralizzazione di un democraticismo solo procedurale, che dissolve istanze e aspettative sociali e, alla fine, si ritorce sulle stesse istanze democratiche. Ne sono prova le numerose battaglie elettorali senza scopi effettivi, che sollevano discordie confusive, astrattamente ideologiche o perfino palesemente clientelari e, comunque, ben poco giustificate dalle esigenze civili dei cittadini, mostrandosi altresì tanto più dispendiose di energie e di risorse materiali quanto più povere di condivisione popolare.