Intervista di Fabio Pagano a Giulio M. Chiodi Europa. Universalità e pluralismo delle culture, (intr. Claudio Bonvecchio), Giappichelli, Torino, 2002
Nel suo libro è contenuta una citazione di Girolamo Cardano che potrebbe valere come motto del suo programma di ricerca: “vita humana symbolica est, qui hoc non intendit non est homo”. Può illustrare quello che a suo avviso è il rapporto tra le istituzioni e l’elemento simbolico?
Le istituzioni prive della forza dei simboli sono vuote, somigliano un po’ a cadaveri, a scheletri. D’altra parte una società dominata da simboli e dagli impulsi che ne derivano, senza strutture moderatrici di carattere istituzionale, si risolve nel caos, nella brutalità, nell’anarchia. L’ideale sarebbe quello di trovare il giusto equilibrio tra l’elemento simbolico e quello istituzionale. L’istituzione non può sorgere e non può svilupparsi se non ha in sé alcuni fattori che appartengono a questa energia che è in grado di fornire senso, identità, vitalità alle associazioni umane che è appunto il simbolo. Il simbolo è sempre energetico.
Lei scrive: il simbolo è costitutivo, non arbitrario, identitario e addirittura magnetico. Sembra quasi stia descrivendo una forza magica.
Il simbolo ha una capacità di “magnetismo” in quanto aggrega, e – come dice lo stesso significato del termine – unifica. In definitiva è un elemento di riconoscimento.
Ciò che può destare un sentimento di appartenenza è indubbiamente legato alla sfera del simbolico.
Il sentimento di appartenenza ad una comunità è sempre legato a un mito: soprattutto a miti di appartenenza, capaci di aggregare sulla base di richiami a riti, a celebrazioni, a riconoscimenti.
A un principio di fondazione.
A un principio di fondazione che è sempre mitico. E’ impossibile risalire alle effettive cause che portarono alla originaria fondazione di una comunità umana. L’origine è sempre narrata, qualcosa che viene evocato, ritualizzato, celebrato; dunque qualcosa di mitico. E i simboli non sono nient’altro che la veste di questi miti, il modo di manifestarsi, la parola, l’espressione dei miti collettivi.
Si è parlato spesso della debolezza di fondazione della repubblica italiana, il mito fondante della repubblica democratica, la resistenza, nel corso del tempo è stato sottoposto a enfasi retorica o a contestazione (due modi speculari per indebolirne la validità). Dove potrebbe trovare la società italiana la sua base fondante sia a livello simbolico che a livello mitico di coesione?
Questo è un problema che ha radici più antiche di quanto si supponga. L’Italia, ha una storia plurimillenaria, antecedente alla stessa espansione di Roma…ha una identità più complessa delle altre nazioni. A questo si aggiunge che il Risorgimento, per come si è realizzato, ha lasciato molti problemi aperti e ne ha creati di nuovi. L’Italia è sorta sulla base di una certa idea statuale che non era il riflesso dei rapporti esistenti all’interno della società civile. E ha portato alla distinzione tra paese reale e paese legale che molte volte è stata sottolineata. L’Idea di “fare gli Italiani dopo aver fatto l’Italia” si è rivelata invece in gran parte fallace. Si può aggiungere il fatto che l’idea stessa di nazione italiana è qualcosa di più limitato, angusto rispetto al concetto di Italianità (vale a dire all’insieme degli impulsi culturali, spirituali che la civiltà italiana ha saputo esprimere nei secoli). Il paradosso è che l’Italianità è qualche cosa di troppo grande e universale, che la nazione italiana più legata alle contingenze storiche, non riesce a contenere. A differenza delle culture nazionali di Francia, Germania, la cultura italiana era già carica di una grande universalità prima che giungesse il momento della presa di coscienza nazionale-risorgimentale.
Se si vuole oggi ripensare con più efficacia i termini dell’identità italiana bisogna aver chiaro il ruolo storico e geopolitico dell’Italia. Io insisto sull’importanza dei due poli dell’Italia: c’è un polo mediterraneo e un polo mitteleuropeo.
Nel suo libro parla di una duplice polarità: un’Italia oscillante in passato tra Oriente e Occidente e un’altra polarizzazione – che sembra oggi acquisire maggior attualità – tra mondo mediterraneo e Mitteleuropa. Sembra che l’Italia sia distesa su tutti e quattro gli assi del “crocifisso” geopolitico e si faccia fatica a trovare proprio il punto centrale, unificante…
Se si studia la storia dell’Italia e la sua collocazione geografica ci si rende conto come le stratificazioni del territorio si riconducano a elementi di tensione molto differenziati. La prima però fondamentale oscillazione è proprio quella tra Mitteleuropa e Mediterraneo. L’Italia è proprio a ridosso del cuore del continente europeo, ma anche al centro del mediterraneo; occupa un ruolo geopolitico che richiederebbe una forte capacità di mediazione tra queste due aree. Il mediterraneo poi è l’unico mare che è centro di civiltà. In genere i mari sono elementi di collegamento non centro.
Di solito sono “distanzianti”…
No invece il Mediterraneo è cuore di incontri e scontri. L’italia è posta nel bel mezzo e nel corso della sua storia ha subito l’influsso delle diverse civiltà, è stata anche protagonista di questi scambi di cultura. Un’altra parte dell’Italia non è mediterranea, ma – oggettivamente – mitteleuropea. L’Italia ha in sé questa ambivalenza, e ha il compito di portare la Mitteleuropea al Mediterraneo e il Mediterraneo alla Mitteleuropea. Questo è il suo ruolo fondamentale di mediazione.
Lei parlava dell’esigenza – oggi ancora disattesa – del costituirsi di un asse mediano che rappresenti un po’ la spina dorsale dell’Europa.
Oggi l’Europa è situata in una linea di tensione che prevalentemente va da est a ovest, che è la linea atlantica. Questa corrente di scambi e di scontri pone in condizioni di emarginazione o degrada dalla sua condizione strategica l’area mediterranea, e da questo punto di vista depotenzia il ruolo che l’Italia può avere anche nel contesto europeo. Mentre se si ricostituisse questo asse medio nord-sud (per intenderci, dalla Germania all’Italia) l’Europa potrebbe ritrovare la sua centralità in quanto recupererebbe l’area mediterranea in connessione con l’area centrale, ridarebbe all’area centrale il suo naturale sbocco al mare e infine riallaccerebbe su basi meno esplosive il contatto col mondo orientale, col quale l’Europa è in condizioni migliori per svolgere una mediazione in chiave mondiale. Se la direzione geopolitica prevalente delle dinamiche internazionali rimane quella che va da Est a Ovest – in cui gli Stati Uniti, come cuore dell’Occidente, svolgono un ruolo preponderante – vi è sempre il rischio che si produca una contrapposizione dannosa tra Europa e mondo orientale.
Questo asse mediano riuscirebbe a sdrammatizzare la polarità tra Oriente e Occidente?
Certamente perché l’asse medio riuscirebbe a recuperare l’area mediterranea con la sua complessità (nella quale è incluso ovviamente l’elemento islamico). Un asse strategico nord-sud consentirebbe il recupero di una mentalità e di una tradizione pluralistica perché quest’asse è tipicamente pluralistico e non può ragionare sulla base della semplificazione Occidente-Oriente.
Esso includerebbe anche il tentativo di conciliare la polarità nordica e quella latina, nel contesto della civiltà europea?
Sì perché tra i due poli, spesso descritti ad arte come inconciliabili e storicamente antagonisti, c’è complementarietà, una auspicabile complementarietà che può arricchire e rendere centrale l’Europa. L’alternativa a ciò è un’Europa che pensando se stessa solo in chiave occidentale diventa una periferia, una appendice.
Diventa quello che i geopolitici avrebbero chiamato l’anello esterno continentale della potenza di mare.
Questo discorso si scontra però nella realtà con una debolezza strategica dell’Italia e una incertezza irrisolta della Germania. Nel suo libro dedica molte pagine alla questione tedesca, a questo rovo di spine che è la Germania ormai da più di mezzo secolo.
Anche in questo si può ravvisare una vicenda simbolica. La Berlino divisa e la Germania divisa sono stati simboli storici di una Europa dilaniata tra Est e Ovest. Ma nel momento in cui si è sanata la frattura tedesca i problemi non sono stati tutti risolti. La Germania è ancora adesso una nazione alla ricerca di una reinterpretazione della sua identità nazionale.
Lei ha indagato la posizione di Habermas, quella di Nolte. A suo avviso come si può uscire fuori da quel labirinto di complessi di colpa, di incertezze o anche di possibili revanscismi che caratterizza un po’ la Germania venuta fuori dalla seconda guerra mondiale.
Come venirne fuori è difficile poterlo dire, però è doveroso constatare il fatto che l’area tedesca è anzitutto il cuore dell’Europa, è il perno su cui può gravitare tutto il complesso europeo.
Chi legge le pagine economiche dei giornali si accorge che tra le condizioni della Germania e quelle dell’Europa vi è una situazione di “simpatia occulta” tanto nelle fasi di crescita, quanto in quelle (odierne) di stagnazione.
Io non dico che l’Europa dovrebbe vivere sotto l’egemonia germanica. Ma dico che la condizione dell’area tedesca è il termometro della situazione generale. Cosa accade lì è un indicatore significativo anche della condizione delle nazioni circostanti. Se il cuore dell’Europa è traumatizzato, irrisolto, incapace di avere una propria linea, di conseguenza ne risente proprio il contesto europeo, e l’Europa è costretta a dipendere da politiche, da dinamiche estranee che non è in grado di controllare. Quindi il problema della Germania non è un problema nazionale, ma un problema europeo. La divisione della Germania ha pesato e pesa tuttora. Essa è stata il segno del rifiuto da parte dei vincitori della possibilità che l’ Europa potesse avere una sua fisionomia dopo il ’45. Il muro di Berlino, voluto da Occidente non meno che dall’”Oriente” comunista, è stata la dimostrazione del fatto che spesso, parafrasando von Clausewitz, la politica è il perseguimento della guerra con altri mezzi. Questo è stato per l’Europa (non solo per la Germania) del dopoguerra.
Nell’immediato dopoguerra, quando si doveva ricostruire la Germania eliminando ogni riferimento a un passato di nazionalismo esasperato vi è stato chi come Habermas ha proposto il cosiddetto “patriottismo costituzionale”. Il collante della società tedesca sarebbe dovuto essere non più il riferimento a una appartenenza nazionale, maturata nei millenni, ma l’adesione a regole costituzionali democratiche. Mi sembra che lei consideri questo ragionamento assai labile. Non è che con l’Europa si stia ripetendo l’errore di un “patriottismo costituzionale”, che prescindendo dalle radici storiche concrete vorrebbe creare una identità sulla base di petizioni di principio e ragionamenti filosofici? Peraltro lei si è espresso in termini abbastanza duri contro la attuale “Europa di lemuri”; da cosa sorge la sua perplessità riguardo al processo di integrazione in atto?
Dal fatto che chiaramente mancano gli elementi mitici e simbolici capaci di costituire il punto di coagulo dell’anima europea, dello spirito europeo, dell’identità europea. Mancano i poeti… Quando nasce qualcosa di nuovo c’è sempre un momento epico, un momento esaltante, alimentato da un senso di sfida e anche di tragicità. Dalla volontà di mettere in gioco le sorti. Questo in Europa manca, perché l’Europa che si sta costruendo sembra essere dettata da un calcolo meramente utilitaristico (non esente da contrasti di interesse).
Un matrimonio d’interesse.
Per certi versi potrebbe anche essere vista così. Con la proposta di costituzione europea il rischio è di ripetere in grande i difetti dei singoli Stati, e di replicare gli squilibri che a suo tempo lo Stato unitario creò rispetto al paese reale. Sono un po’ critico su come viene prospettata l’Europa in sede costituzionale stilando carte di diritti, petizioni di principî, regolamenti burocratici in cui si dovrebbe riconoscere il continente. Questa dinamica farraginosa non riesce ad esprimere una visione unificante realmente rappresentativa. Il punto è che i popoli non si unificano a tavolino, si unificano sulla base dei sentimenti condivisi, degli ideali, di ciò che esprime anche simbolicamente la loro dignità e identità. Tutto ciò non può sorgere intorno a un tavolo, in base a principi astratti. Il mito è importante nelle fasi di fondazione: i miti di appartenenza non hanno autore, e non si creano a tavolino. Il mito si fa da sé, è vissuto più che inventato, e se non c’è un mito di appartenenza non c’è neanche una identità della collettività.
Lei faceva una differenza tra mito archetipale e mito ideologico.
Sì, è una differenza legata agli studi di simbolica che coltivo da molto tempo. Il mito ideologico è un mito in un certo qual modo razionalizzato.
Il contratto sociale ad esempio
Mi riferisco piuttosto ai miti di libertà, di benessere, al mito del successo, del progresso. Sono mitologie che hanno caratterizzazioni ideologiche nel senso che riflettono una progettualità, una certa visione prospettica della vita collettiva.
Il mito archetipale è invece un mito più ancestrale, direi che ha una radice antropologica più che sociologica. I miti archetipali sono modulati su caratteristiche di fondo dell’essere umano, e su costanti della storia. A volte vengono sotterrati, resi latenti, “dormienti”; e sfuggono a una dinamica di tipo ideologico. Pensiamo al mito del liberatore, del vendicatore, anche al mito della forza, come a componenti vitali – sempre risorgenti -della collettività umana, mentre il mito ideologico è invece rivestito da una certa dose di razionalità funzionale, strumentale.
Faccio una semplificazione giornalistica: mito archetipale quello nazista, mito ideologico quello comunista.
Io non semplificherei in questo modo. All’interno del comunismo e del nazismo c’era più di un mito. Ad ogni modo, il mito principale che si è imposto nel nazismo, quello della razza, è un mito regressivo, rappresenta un regresso alla dimensione puramente biologica della razza. La dimensione mitica è prevalsa totalmente sulla capacità di razionalizzazione, essa si è impossessata totalmente di una collettività soffocandone la razionalità, sotto effetto di una situazione sociale, ambientale, storica che manifestava in partenza enormi lacune.
Il comunismo nasce da condizioni più propriamente socioeconomiche, e cerca di interpretare una ideologia, un nucleo ideologico programmatico. In questo senso è un mito tipicamente “ideologico”.
Anche se poi quando i Tedeschi arrivano sotto Stalingrado Stalin va alla radio e si appella ad Alexander Newsky, al sangue slavo. Nevski era il principe che combatté i Teutonici… Stalin usò quindi anche l’altra carta del mito archetipale.
Ed era già attivo il tema della Santa Madre Russia, l’idea di un ruolo messianico affidato alla nazionalità russa, che i comunisti hanno reinterpretato ovviamente secondo i loro fini ideologici.
D’altra parte, fin dal principio, il marxismo era impregnato di messianismo, di temi biblici- escatologici. Un’altra distinzione interessante che lei compie è quella tra Civitas e Socialitas.
È una distinzione che merita di essere approfondita. Sono le due dimensioni che meglio interpretano la complessità della vita politica.
La civitas nasce principalmente da una tradizione mediterranea; da una civiltà creatrice di insediamenti urbani, che pensa alla Legge – e alle istituzioni che ne derivano – come alla fonte della vita politica.
Quella civiltà che venera alle proprie origini leggendarie figure di Legislatori: Solone, Licurgo, Numa, Minos..
Che pensa al Nomos come alla base più solida per la convivenza umana.
Di contro la socialità è qualcosa che risente maggiormente degli stili di vita che in Europa vediamo collegati alle civiltà germaniche, nordiche e celtiche nelle quali la città, l’insediamento in origine, non svolgeva un ruolo determinante, e nelle quali il legame sociale si fondava principalmente sul patto, sulla fedeltà personale.
Questi due modi di organizzazione sociale, l’una richiamatesi alla Legge l’altro al Patto e al rapporto fiduciario, sono ancora evidenti nelle diverse interpretazioni che il diritto assume, per esempio, nel mondo neolatino e in quello nordico anglosassone. Io credo che un’Europa forte dovrebbe oggi armonizzare in sé questi due principi, quello legato al nomos, e quello legato al patto che unisce i cittadini tra di loro e li lega anche in vista di un principio superiore.
Un interessante sviluppo dei suoi studi di simbolica politica è costituito dall’esigenza, da lei indicata, di una sorta di androginia del diritto: ovvero l’esigenza che il patrimonio di leggi e di istituzioni sia modellato in modo tale da soddisfare principi tanto “maschili”, quanto – in senso lato – “femminili”.
Se si pensa in maniera “vitale” le istituzioni bisogna che si riproducano in esse i due principi del fenomeno vitale, il principio maschile e quello femminile. È chiaro che li definiamo così per convenzione…
Se fossimo in Cina avremmo potuto chiamarli principio-yin e principio-yang…ma così dicendo, in Italia non ci capirebbe nessuno…
Esattamente. Il principio femminile è un principio più fluido, ricettivo che mira alla comprensione delle situazioni, all’adattamento. Il principio maschile è maggiormente organizzativo, plasmatore, performativo. Questi due elementi devono essere recuperati nelle istituzioni ed anche nella norma giuridica.
Anche perché il privilegio accordato ad un solo aspetto provoca come contraccolpo “karmico” l’estremizzazione dell’altro. Lei adduceva in proposito l’esempio di Weimar.
La costituzione svolge un ruolo maschile rispetto alla società, che è l’elemento fluido. La costituzione è la struttura performativa della società, essa deve prevedere una capacità autoritativa, decisiva, ma ovviamente deve anche essere aperta e flessibile nei confronti degli sviluppi della società. La carta di Weimar dal suo canto è l’esempio più tipico e tragico di come ottime intenzioni astratte producano in concreto risultati letali. Era una delle costituzioni più celebrate e ammirate come frutto di tanta saggezza giuridica. Dov’ era il difetto di quella costituzione? Era in un eccesso di femminilità, quella di Weimar era una costituzione che cercava di interpretare tutte le dinamiche della società, tutte le possibili esigenze sociali, senza imporre linee chiare di guida.
E questo in un epoca in cui la società tedesca non sapeva che pesci prendere era forse la scelta più ingenua!
Inoltre era carente sotto il profilo autoritativo.
La risposta della società fu la richiesta di una forte guida “maschile”, il nazismo interpretò nei modi che tristemente conosciamo tale richiesta. Quindi una costituzione troppo femminile genera reazioni incontrollate di tipo “maschile”. E viceversa.
Una reazione del genere non si sta verificando anche adesso? Da certi eccessi garantisti della norma, dalla volontà esasperata – e a volte retorica – di “comprendere”, “perdonare”, giustificare chi ha sbagliato, non potrebbe per reazione scaturire il risorgere di forme arcaiche di “giustizia” come la vendetta privata o il linciaggio?
La tendenza giustificativa delle diverse situazioni rischia di produrre una carenza di principi autoritativi.
Per cui c’è il rischio che l’ “autorità” si ristabilisca in maniera barbara…
In maniera caotica.
Altra distinzione interessante: democrazia costitutiva e democrazia rivendicativa. Lei faceva riferimento come modelli storici delle due forme all’America e al continente europeo.
Non esiste un unico tipo di democrazia. Una distinzione significativa potrebbe essere quella tra paesi che sono sorti con una struttura democratica e paesi in cui la democrazia si è sviluppata come una conquista in opposizione a principi di governo preesistenti. Il primo tipo di democrazia si presenta molto più stabile che non il secondo. Le democrazie rivendicative, sorte da lotte e rivendicazioni sociali sembrano sempre aver bisogno di un punto di riferimento a cui opporsi, per rivendicare sempre nuovi “diritti” e “libertà”. La cultura della rivendicazione “democratica”, portata ad eccessi retorici, dopo aver distrutto giustamente gli autoritarismi, finisce col distruggere gli stessi istituti di autorità democratica creando conflittualità, disgregazione.
Un eccesso di enfasi sul tema dei diritti fa quindi parte di questi aspetti problematici delle democrazie rivendicative?
Sicuramente. Personalmente do più importanza ai doveri.
Quando i diritti si trasformano in pretese non si comprende più cosa sia un dovere e la società imbocca una strada pericolosa.
I diritti secondo lei si concepiscono solo in funzione di un dovere, di un ruolo da svolgere nella società.
Un diritto può essere riconosciuto e garantito solo laddove c’è un dovere. Quindi prioritario è il dovere. Per tale motivo, i richiami a diritti dell’ambiente, degli animali, delle generazioni future sono tutte petizioni di principio, astratte, ideologiche, strumentali, perché, volendo essere più concreti, essi possono interpretarsi solo come doveri. “Tu hai doveri nei confronti degli altri, delle generazioni future, della tutela ambientale, ecc.. Oggi l’ideologia dei diritti che aveva senso nel settecento è assai povera di significati e si presta anche a coperture di operazioni ideologiche. Dietro la proclamazione dei diritti si nasconde a volte la volontà del più forte, e anche l’irresponsabilità. Attraverso i diritti si tende a produrre una infinità di organi di controllo burocratici.
Perché ogni rivendicazione di diritti si tira appresso una commissario ispettore…
Tutto questo porta al predominio della “procedura”, all’assillo per la correttezza meramente formale. E tutto ciò a detrimento di un sano principio di responsabilità.