Civitas e socialitas. Scuola di educazione federale. Sul baricentro europeo

 

“Civitas e socialitas. Scuola di educazione federale”.  Discorso semplice sul baricentro europeo

  Sono in atto trasformazioni degli assetti del mondo, prodotti in gran parte dalle innovazioni della tecnologia, che condiziona e anche strumentalizza la politica. Sul piano politico quanto è in corso richiede di ragionare a lunga, media e breve misura, nonché brevissima. Questi aspetti non agiscono in successione, ma operano congiuntamente già nel presente. Tuttavia nel presente è opportuno non confonderne la presa sui fatti e sulle scelte che si compiono o devono compiersi. A lunga misura ci si deve regolare sull’Estremo Oriente, con Cina ed India, a media col Medio Oriente e il mondo islamico, a breve (anzi immediatamente) con la situazione dell’Europa. Un tono di rassegnazione accompagna in quest’ultima uno spirito stanco e distratto, che si è diffuso in gran parte della sua popolazione. E’ frutto di sfiducia, di pigrizia mentale, di bassi ideologismi e di conformismo gregario, che conducono a un provincialismo inquieto ed indolente. Ma fintanto che l’umanità non sarà ridotta ad un insieme robotizzato eterodiretto, l’Europa avrà ancora nel mondo un compito civilizzante, che ora non mostra di saper adempiere. E’ un compito di tutti e di ciascuno. Quelle che seguono sono riflessioni generali e preliminari su questo impegno, rivolte soprattutto agli italiani. 

Asse medio. Dove va la Germania, va anche l’Europa; dove va l’Europa, va anche la Germania. I destini della Germania e dell’Europa sono strettamente congiunti. Ma c’è di più. Se l’Europa deve avere un cuore, quello è la Germania. Altrimenti l’Europa sarà senza cuore. Esser senza cuore rende probabile anche l’esser senza testa, oppure avere più teste, ma in disaccordo tra loro. Sviluppiamo l’idea della centralità della Germania sotto il profilo dell’autoriconoscimento di un’identità europea, precisando fin da ora che con centralità non intendiamo affatto accentramento egemonico, bensì assicurazione di poter conservare le proprie autonomie. Lo richiede il naturale assetto dell’Europa, se vuole sopravvivere, e le considerazioni che seguono si propongono di metterlo in risalto.

  L’Europa geograficamente è una penisola, precisamente lo è del continente asiatico. Ma lo è non soltanto sotto l’aspetto geografico. Tenendo in considerazione l’efficace teoria di Gerhard Ritter, che distingue la politica dei paesi che definisce insulari (ben determinati nei loro confini) da quella dei paesi che definisce continentali (dai confini malsicuri), bisogna convincersi che l’Europa, considerata nel suo insieme, non può svolgere senza suo discapito una politica caratterizzata insularmente, e nemmeno continentalmente. Lo possono solo singoli paesi europei nelle loro circoscritte aree di influenza come, per esempio classico, l’Inghilterra, che è tipicamente insulare, e la Germania, che è tipicamente continentale. Sulla scorta di questa contrapposizione possiamo immaginare l’esistenza anche di aree peninsulari; come lo è nella sua peculiare l’area l’Italia.

Le aree peninsulari – alle quali abbiamo detto appartenere l’Europa – sono sollecitate a svolgere una politica dalle scelte più incerte e spesso contraddittorie, essendo costantemente costrette dalle dinamiche interne ed esterne ad accentuare ora politiche dagli aspetti insulari ora da quelli continentali. Da un mondo che, preso nel suo complesso, si presenta peninsulare, come è quello europeo, ci si devono aspettare comportamenti alterni, occasionali, spesso imprevedibili (altresì imprevidenti) e dagli equilibri non sempre scontati. Così è per una compagine peninsulare. Questa natura peninsulare vale per la politica europea nel suo complesso, ossia se la immaginiamo unitaria; ma non per ciò stesso è estensibile alle sue nazioni singolarmente considerate.

Un problema particolarmente importante è sollevato proprio dalla peninsularità di un sistema. Esso vive al suo interno sotto le pressioni di una forza bipolare spesso contrastiva. L’una polarità (insulare), sicura dei propri confini (intesi come tracciato di ambiti sotto il suo completo controllo), conferisce identità e autoriconoscimento al sistema, rendendolo alquanto autosufficiente nel decidere di accettare o di respingere quanto proviene dal suo esterno; l’altra polarità (continentale), insicura dei propri confini, costringe a ridefinire le proprie identità e sicurezze ogni volta che debba accettare o respingere quanto proviene dal suo esterno. Nel caso dell’Europa è inevitabile che essa, considerata nel suo complesso, debba fare costantemente i conti con l’insularità del suoi confini occidentali e la continentalità dei suoi confini orientali.

L’immagine della peninsularità è molto efficace, perché mette bene in evidenza il punto debole di un sistema politico che di essa abbia i caratteri. Tale punto debole sta nella facilità a non possedere, o a perdere qualora riuscisse a possederlo, un centro costante del sistema. Per la sua consistenza, stabilità, equilibrio e vitalità un sistema politico deve riconoscersi in una centralità. Un sistema peninsulare non ne dispone per sua naturale costituzione, ma deve costruirselo, individuandolo dall’esperienza storica e dalla consistenza del suo sentimento di appartenenza, il quale non si dà facilmente da sé, ma va culturalmente e opportunamente coltivato. Oggi l’Europa mostra di vivere la sua peninsularità senza aver cura di coltivare un proprio centro, che non può essere inventato né dalle ideologie, né da sentimenti nazionalistici, né dalla proclamazione di principî astratti.

Se osserviamo la storia europea complessiva dei tre o quattro ultimi secoli, troviamo facilmente conferma di quanto ora detto. La prima constatazione che dobbiamo fare è che non si è mai consolidato in Europa il predominio duraturo di una nazione sulle altre; solo, vi sono state egemonie transitorie, che non hanno assicurato, anzi molto spesso compromesso, la stabilità europea. Per questo motivo l’Europa non ha mai conseguito una sua unità politica; non vi è stato nessuno stato in grado di unificarla. Più significativo a questo proposito è soffermarsi a considerare i rapporti strategici intercorsi tra tre paesi europei che, almeno a partire dal XVIII secolo, si sono dimostrati culturalmente e politicamente i più determinanti, in virtù del loro commisurarsi a vicenda, nel condizionare il corso degli eventi nel vecchio continente. Alludo all’Inghilterra, alla Francia e alla Germania.

Possiamo incominciare domandandoci perché in due tragiche riprese la Germania, cuore d’Europa, si è trovata nel secolo scorso a scontrarsi belligerante contro l’Inghilterra e contro la Francia. Se ciò è accaduto al cuore dell’Europa, le ragioni più caratterizzanti vanno cercate proprio nella stessa Europa. E’ evidente che i suddetti tre paesi sono di alto potenziale economico e civile e si sono sentiti vicendevolmente sollecitati a misurare l’efficacia del loro ruolo. Che l’Italia – che ci tocca da vicino – fosse stata nemica della Germania nel primo dei due conflitto e alleata nel secondo – ma durante il secondo finì anche per spaccarsi in due, rivolgendosi contro il suo alleato – può aiutarci a capire le ambiguità che sono intercorse tra questi due paesi; ma si tratta di un’ambiguità che pesa particolarmente sull’Italia, giacché in entrambe le occasioni era partita nelle condizioni di alleata. La prima alleanza fu dall’Italia ignorata fin dall’inizio dello scoppio della guerra, la seconda si consumò dando vita a due governi in pieno conflitto tra loro, l’uno accordatosi con l’originario nemico e l’altro mantenendo un’alleanza gestita altresì coltivando nel suo seno con una guerra civile. Ma del fenomeno italiano faremo cenno più avanti, qui ricordando soltanto la grande complementarità e continuità storica tra i due territori, italiano e tedesco, che emerse fin dall’alto medioevo, al costituirsi di un’entità europea.

Torniamo ai tre stati, che abbiamo detto misurarsi l’uno con l’altro. Se risaliamo al XVIII secolo troviamo elementi di confronto molto importanti. L’Inghilterra aveva stretto una ben determinata alleanza con la Prussia contro la Francia. L’Inghilterra non poteva vedere di buon occhio la forte espansione francese, che cercava di farle la concorrenza anche sui mari; la Prussia, da parte sua, aveva tutto l’interesse a contenere quella stessa espansione che la minacciava ai suoi confini occidentali. Situazione, questa, di abbastanza lungo periodo, poiché si ripeté la medesima conflittualità circa mezzo secolo dopo nel periodo napoleonico. Contro Napoleone Inghilterra e Prussia si ritrovano nuovamente alleate. Osservando complessivamente il periodo storico che comprende queste vicende e muovendo l’analisi a partire da esse per arrivare ai nostri giorni, ci si mostra chiaro il gioco degli equilibri che intercorrono tra Inghilterra, Francia e Germania e il ruolo secondario ed instabile svolto dall’Italia nel contesto generale dell’Europa. Ognuna di quelle tre nazioni si è regolata sempre in rapporto alle altre due, come riferimento principale. L’equilibrio precario che ha gravato sull’Europa a partire da quell’epoca, può essere ben compreso cercando in quel triangolo di nazioni il suo baricentro culturale, economico e politico. A tutt’oggi ancora occorre primariamente guardare ai questi rapporti trilaterali prima di trarre conclusioni sull’andamento e le prospettive più immediate dell’Europa. Gli altri paesi europei mostrano una netta tendenza ad adeguarsi, per non dire a sottomettersi, alle risultanti espresse da quella triade, che certamente non costituisce il tutto, ma che ne determina la direzione più emergente.

Riferendoci ad oggi e ai tempi a noi più vicini, non si deve affatto trascurare una variante, che si è fatta decisiva con la maturazione delle relazioni internazionali. Con la Prima Guerra mondiale, la cui vera sconfitta è stata l’Europa e i veri vincitori gli Stati Uniti d’America, e con la scomparsa dell’Impero Absburgico, che costituiva l’area mediatrice con l’Oriente slavo ed islamico, gli equilibri europei sono venuti meno e il loro baricentro si è occidentalizzato. Gli Stati Uniti hanno incominciato ad imporre la loro supremazia. La seconda guerra mondiale, naturale prolungamento della prima, ha accentuato questa situazione: l’accresciuto ruolo egemone degli Stati Uniti d’America ne fa una potenza esterna, che determina le scelte più decisive compiute o non compiute dell’Europa; è una potenza che ora agisce direttamente sul tutto, ora indirettamente attraverso la sua influenza su singoli paesi. Ma rimaniamo sul terreno strettamente europeo, mettendo in luce l’essenziale.

L’Inghilterra, dei tre sopra citati paesi determinanti, è il paese più favorevole al coinvolgimento europeo degli Stati Uniti, ai quali ha ceduto un certo suo ruolo bilanciatore. L’Inghilterra ha difficoltà ad immaginare le sue fortune legate all’Europa, se non tenendo una mano ben agganciata alla potenza d’oltreatlantico, anche sfruttando di questa la condivisione linguistica. La forza ora esercitata nel quadro europeo dall’Inghilterra dipende in larghissima misura dal riferimento che essa fa a quella potenza extra-continentale, che funge da reciproco fulcro e supporto. È per questo motivo che, a partire dal delinearsi di una formazione più unitaria dell’Europa, l’Inghilterra tende sempre spesso ad allungare le distanze dal continente. Da una forte compattezza della compagine europea, dotata di un’effettiva autonomia decisionale, l’Inghilterra si sentirebbe infatti particolarmente periferizzata. Le ragioni che la spingevano a suo tempo ad allearsi con la Prussia contro la Francia e più tardi con la Francia contro la Germania sono mutatis mutandis le medesime che la fanno ora accostare alla potenza oltreatlantica, per compensare l’indesiderato peso europeo. L’Inghilterra, va sempre sottolineato, stenta non poco a considerarsi integrata in un’Europa autonoma e strategicamente unitaria e coltiva nel contempo una sua visione di universalità, forse ereditata dalla sua storia di grande potenza coloniale. È dunque da precisare che l’Inghilterra, pur essendo a pieno titolo un paese europeo, non lega le sue fortune interamente al continente. Paese marinaro per eccellenza, apre i suoi orizzonti economici e culturali in ogni direzione e non bisogna mai dimenticare che è stata la nazione che ha costruito un immenso impero coloniale, col quale si è abituata a sentirsi dotata di una speciale centralità universalizzante. Si tratta di una caratteristica che non può affatto coltivare in Europa, dove deve fare i conti con realtà non omologabili a questo modello.

La posizione inglese nei confronti dell’Europa è duplice: da una parte in Europa si sente stretta, dall’altra la teme, perché se ne sente emarginata.  E’ evidente che essa non può affatto svolgere la funzione di area culturale centrale europea: nei suoi confronti la sua politica è decisamente decentrata, per non dire addirittura eccentrica.

Quanto alla Francia, è certamente tra tutti il paese più nazionalista. Non c’è dubbio che nel suo seno si coltivino ambizioni a farsi centro di una sorta di universalità – che incominciò a coltivare fin dalla sua antica monarchia, poi con la Rivoluzione e il napoleonismo – ma con modalità profondamente diverse da quelle inglesi. La Francia è innanzitutto un paese istituzionalmente accentratore, che come tale può trovarsi particolarmente esposto a confliggere con ideologie di governo, che finora è riuscita in gran parte a contenere, grazie soprattutto all’apparato amministrativo dello stato, poco influenzabile dalle pressioni politiche di parte. Mentre l’Inghilterra – senza enfatizzare il senso delle parole – può essere intesa come una società civile articolatamente unificata, la Francia si presenta come assoluta statualità ed è restìa a concepire un’universalità che sia incline a uno spirito federativo; la sua è una concezione statocentrica a forte tendenza nazionalistica. Si tratta dell’indubbio apporto della sua tradizione di antica monarchia e, in seguito, di giovane rivoluzionaria.

Quando parliamo di spirito universalistico alludiamo a quanto si addice alla custodia attiva della centralità di un sistema, che sia capace di alimentare un cuore centripeto per un vasta area comune e non omogenea, oppure una spontanea espansione, di carattere anche complementare, verso contesti esterni. Ma tanto le caratteristiche della realtà inglese quanto quelle della realtà francese – le circostanze e la storia stanno a dimostrarlo – non si presentano, rispettivamente, come proprie di paesi qualificati per svolgere il ruolo di centralità europea. A sfavore dell’Inghilterra gioca anche la sua concezione tipicamente insulare, poco idonea a compenetrarsi nelle logiche continentali, che predominano nelle consuetudini delle popolazioni europee, nonché la sua posizione geografica relativamente decentrata. A sfavore della Francia – più del suo nazionalismo, che fra l’altro non ha certo la forza di essere egemonico sull’intero continente – bisogna annoverare la posizione del suo baricentro, che risulta, rispetto agli assi del continente, troppo gravitante sull’area occidentale. A sfavore di entrambi i paesi, presi come centralità europea, si deve accampare la presenza di non poche aree europee, formate da popolazioni che coltivano loro peculiari costumi e particolarismi, dotati fra l’altro di inveterate tradizioni, che per diverse motivazioni appaiono poco inclini a riconoscersi in un’unità europea che avesse la sua essenziale centralità nei due paesi in questione. Gli uni non si riconoscerebbero nella vocazione statocentrica francese, gli altri nel relativo antieuropeismo intercontinentale degli inglesi, che finirebbe per lasciare il continente sotto il dominio delle forze economiche più aggressive.

Sono in particolare gli avvenimenti che hanno visto in primo piano questi due paesi, Inghilterra e Francia, con gli effetti da essi prodotti sull’area germanica – che da essi e con essi è stata variamente coinvolta – che hanno scandito, come sopra dicevamo, le dinamiche europee degli ultimi secoli. Gli equilibri instabili attuati da queste tre aree sono stati accentuati – e in fondo lo sono ancora – dall’assenza di un riconosciuto centro dell’Europa, la quale attesta le sue fondamentali e fragili linee di sviluppo facendo sostanzialmente perno su un solo asse egemonizzante: quello che intercorre da ovest ad est. La concentrazione delle linee di forza lungo questo solo asse comporta almeno due effetti, entrambi nocivi al consolidamento di una solida compagine europea. Da una parte vengono periferizzate le aree mediterranee, ridotte a malcerte frontiere, in quanto confini meridionali del continente e ponte di collegamento con altre compagini extra-europee; e dall’altra parte si enuclea una sorta di baricentro triadico anglo-franco-tedesco, alquanto eccentrico rispetto al contesto complessivo europeo, che periferizza, oltre alle aree meridionali, anche quelle dell’est, occupate dalle popolazioni slave, balcaniche, ungheresi, rumene ecc.

Il mantenimento della linea assiale europea est-ovest e gli ostacoli frapposti al rafforzamento della debolissima linea nord-sud è dovuto a logiche strategiche e a direttive risalenti agli sviluppi dei rapporti internazionali, che vedono fino ad ora come protagonisti, almeno per l’Europa, gli Stati Uniti d’America e l’estremo est, russo, ma soprattutto asiatico. Gli Stati Uniti si misurano – per ovvi motivi di espansione e di relazioni egemoniche, ora direttamente e ora per delega di fatto ad alleati – con le potenze salve e asiatiche e con le inquiete aree musulmane. Rispetto alla specificità dell’Europa la politica nordamericana segue strategie che non trovano specifico interesse al rafforzamento dell’asse medio europeo nord-sud, che va dai territori mediterranei e balcanici ai paesi baltici e scandinavi. Rafforzare questo asse, che denominiamo asse medio d’Europa, attribuirebbe al vecchio continente una struttura, nel suo complesso, più salda e consistente, poiché porterebbe a una più intensa integrazione continentale dei paesi mediterranei e di quelli euro-orientali in funzione molto meno emarginata e meno periferizzata di quanto ora non accada. L’asse medio può essere detto la spina dorsale dell’Europa.

La debolezza dell’asse medio pone soprattutto i paesi mediterranei e balcanici in condizioni troppo subalterne, senza che la compagine europea complessiva ne tragga vantaggio, anzi con suo nocumento. Dato il potenziamento dell’asse medio, incrociandosi questo con l’asse ovest-est, l’Europa verrebbe messa nella condizione di stabilire un proprio centro al suo interno e con questo avrebbe anche modo di godere di una maggiore equilibrio autonomo e di una maggiore concentrazione su di sé delle energie decisionali sulle proprie sorti.

Questa posizione europea, rafforzata dal potenziamento dell’asse medio, non incontra certamente il favore degli Stati Uniti d’America e dei paesi che fanno a questi eco, perché porrebbe l’Europa in una situazione più forte e quindi meno costretta a subire passivamente l’egemonia d’oltreatlantico e più in grado di trattare alla pari i propri interessi. E lo scetticismo, per non dire l’ostilità nei confronti del rafforzamento dell’asse medio, è pressoché totale da parte dell’Inghilterra e, per motivi non del tutto coincidenti, della Francia, perché vedrebbe ridimensionata la sua ambizione di essere in Europa l’incontrastata interlocutrice primaria della Germania. Con un rafforzamento dell’asse medio l’Inghilterra si vedrebbe sollecitata a considerare il proprio europeismo alla luce di minori compromissioni con la politica americana, e a prendere posizioni più chiarificatrici circa la sua relativa equidistanza e vocazione mediatrice tra Europa ed oltreoceano. Per quanto riguarda la Francia, questa si dovrebbe misurare con un più sensibile spostamento verso est del baricentro degli interessi europei, superando i timori di una supposta diminuzione di ruolo nel trattare gli affari comuni europei.

Il rafforzamento dell’asse medio determinerebbe un maggiore inserimento nel quadro europeo complessivo di paesi mediterranei, come la Spagna, l’Italia, la Grecia e di paesi orientali, come quelli che occupano l’intera area balcanica e, a nord, la Polonia ma, probabilmente, anche quelli dell’area scandinava, che potrebbero forse incrementare la loro gravitazione intorno ai bacini marinari del Nord-Europa.

Avevamo più sopra definito la Germania come cuore dell’Europa. L’affermazione trova giustificazioni di diversa natura. Di queste soprattutto tre sono qui da sottolineare: la collocazione geografica, il potenziale economico-culturale, la propensione ad integrare condizioni particolaristiche senza omologarle. Qui parliamo di Germania in senso ampio, come area generalmente tedesca, citando il paese principale di un’area culturale più estesa del riferimento a un preciso stato. Che nell’area tedesca vada individuato l’unico centro possibile dell’intera compagine europea dipende soprattutto da quei tre requisiti. Ma non basta. La centralità di cui parliamo è conseguibile a due ineludibili condizioni, strettamente tra loro congiunte, essendo l’una l’altra faccia dell’altra. Queste condizioni sono il riconoscimento, di fatto e non soltanto di principio, da parte di tutti i paesi europei della centralità tedesca e il rafforzamento dell’asse medio.

La posizione geopolitica occupata dalla Germania pone questo paese in una condizione tipicamente continentale e, più in particolare le forze di pressione e di interscambio confinario intercorrono sulla linea oriente-occidente. L’area francese preme al suo ovest e l’area slava al suo est, rimanendo molto meno condizionanti le intercorrenze geo-politiche verso il nord scandinavo e il sud italo-mediterraneo. La Germania si sente naturalmente rivolta nelle sue linee di trazione a queste due direzioni opposte. Le sue dinamiche di relazione non possono assolutamente prescindere da questi due estremi confinari. La minore problematicità per la Germania della linea nord-sud, che determina l’asse medio d’Europa, rende la Germana stessa poco incline a dare altrettanto rilievo all’area mediterranea. Con la conseguenza che, rivolgendo le sue attenzioni principalmente in quelle due direzioni, è sollecitata a ripartire, per così dire, il suo baricentro verso l’est e verso l’ovest, entrambi vitali alla sua politica territoriale; in tal modo le linee di trazione che l’attraversano tendono ad emarginare le aree mediterranee, sostanzialmente discoste dai suoi confini. E’ proprio la centralità geo-politica della Germania, che esprime la sua efficacia lungo la linea oriente-occidente, a far sì che si accentui per l’Europa intera la sua subordinazione alle strategie internazionali che gravitano soprattutto su quella linea, le strategie, cioè, polarizzate sul Nord-America e l’est asiatico. Ma la carenza dell’asse medio non penalizza la Germania in quanto tale, ma prima di tutto l’area mediterranea e, poi, l’Europa presa nel suo complesso. Il rafforzamento dell’asse medio renderebbe geo-politicamente più coinvolti nella compagine europea i paesi mediterranei e costituirebbe altresì l’attribuzione all’Europa di un peso maggiore nella stessa logica della polarità oriente-occidente, che attualmente la sospinge verso ruoli sempre più subalterni. Al tempo stesso si attenuerebbe la condizione di “ventre molle” dell’Europa, come è considerata, e non del tutto a torto, proprio l’area mediterranea. Il sud europeo è diventato un confine malcerto ed esposto, che fa perdere anche al Mediterraneo stesso – mare storico di incontro-scontro e crogiuolo di civiltà – la fertilità dei suoi apporti soprattutto culturali. Proprio nelle popolazioni euromeridionali, però, è spesso alquanto diffuso un atteggiamento psicologicamente distanziato dal mondo di area germanica, spontaneo o voluto che sia, ma in ogni caso ingiustificato.

Solo in virtù dell’effettiva e riconosciuta centralità tedesca, ovviamente, può essere resa effettiva ed efficace l’azione dell’asse medio europeo. In generale possiamo dire che la componente universalistica tedesca – non vi sono aree nazional-culturali europee chiuse in se stesse e prive di aperture universalistiche, nel senso sopra detto – presenta caratteri più socio-culturali che politici. Dipende da una storica vocazione pluralistica e poco statocentrica.  Delle tre caratteristiche dell’area tedesca, presa nel suo complesso, che abbiamo appena indicate, due sono da ritenersi specificamente peculiari: la collocazione geografica, la disponibilità verso il particolarismo.

La collocazione geografica è un fattore decisivo, che contribuisce in via primaria alla vocazione squisitamente europea di quel paese. Le sorti della Germania, infatti, più di qualsiasi altro paese europeo di consistente estensione sono strettamente interdipendenti da quelle dell’Europa. Quanto al particolarismo (da intendersi qui come propensione al pluralismo) bisogna pensare che l’Europa è innanzitutto multiforme di tradizioni, di costumi, di lingue: la convivenza di queste sue caratterizzazioni è essenziale alla sua stessa esistenza identitaria. Sopprimendo queste peculiarità cultural-territoriali non sarebbe più Europa. L’area tedesca in senso esteso, ossia comprendente anche territori non appartenenti all’attuale Germania in quanto Repubblica Federale Tedesca, ma culturalmente e linguisticamente affini o di fatto alquanto interrelati, ha una tradizionale vocazione alle formazioni federate; certamente molto di più di altre compagini europee. E’ innegabile che tra le maggiori aree nazionali europee, quella tedesca è tradizionalmente la più aperta a strutture federali. E’ questa una vocazione molto più che confacente per la convivenza complessiva europea ed è assolutamente necessaria per interpretare le esigenze dell’intero contesto europeo.

Il rafforzamento dell’asse medio d’Europa, a cui poco sopra si è fatto cenno, assegna a quell’area un ruolo più confacente alla sua posizione geografica e geostorico- e geocultural-strategica. La Germania raccoglie gli influssi della Francia, dell’Italia e dei paesi slavi, Russia compresa, certamente anche dell’Inghilterra, per rimanere a parlare del continente. Non c’è altro paese europeo altrettanto relazionale, per non dire interrelato, anche per la sua capacità produttiva, che gli consente, con particolare consistenza, di aprirsi anche ai mercati estremo-orientali. Più di qualsiasi altra delle maggiori nazioni europee, ripetiamo, ha i suoi destini legati a quelli dell’Europa. Dove va o dove non va l’Europa, va e non va la Germania; dove va e non va la Germania, va e non va l’Europa.

L’Italia, geopoliticamente parlando, ha una configurazione molto particolare nella compagine europea. E’, sotto questo profilo, la più europea di tutte le nazioni. Infatti è un paese tipicamente peninsulare, così come lo è l’Europa, considerata nella sua collocazione continentale, che ne fa una penisola nord-occidentale dell’Asia. Anche senza voler stabilire conseguenze dirette dalla configurazione geo-territoriale di un paese, si riconoscono nella tradizione italiana tutte le caratteristiche di una cultura peninsulare. Possiamo considerare l’Italia una penisola facente parte di una più grande penisola. Il suo nord ha tratti indubitabilmente continentali, mentre il suo centro e soprattutto il suo sud ne hanno di marittimi. Il suo aggancio al continente ne fa una parte integrante di questo e non ne fa un’”isola”, mentre la sua lunga estensione costiera la discosta dalla mentalità continentale. Tutte le ambiguità, le decisioni oscillanti, le irresolutezze e incoerenze che costantemente mette l’Italia in luce sono facilmente riconducibili alle specificità di una mentalità peninsulare. Perfino molti contrasti, reali e immaginari e incomprensioni pressoché campanilistiche, che spesso si determinano tra il suo nord e il suo sud, sono imputabili a caratterizzazioni dettate dalla sua bipolarità peninsulare. Questa stretta affinità caratteriale con l’europeità, presa nel suo complesso, presenta anche significativi riscontri, ma per tutt’altri motivi, nella sua ricca storia culturale, che ha dato apporti straordinari e ineguagliabili alle origini e a molte direttive della intera civiltà europea. Queste peculiarità italiane dovrebbero altresì fungere da ammonimento ai costruttori dell’attuale Europa. Costoro devono guardarsi dal ripetere quanto, in maniera più circoscritta, è avvenuto con l’Italia, ossia di costituire un’unità politica istituzionalmente contrastante con la realtà pluriculturale della sua popolazione, con gravi effetti di scollamento tra il corpo statuale da una parte e le consuetudini e la mentalità di chi vive sul territorio dall’altra.

Le osservazioni ora fatte affrontano solo di primo e generico impatto un grande tema. Pertanto esse non forniscono documentazione né adducono specifiche argomentazioni. Nemmeno si è voluto arricchire l’esposizione con citazioni più o meno autorevoli, dirette o indirette, né impreziosirla con frasi ad effetto. In tal modo si è salvaguardata l’immediatezza e la spontanea naturalezza del dato di fatto, che le idee qui espresse dovrebbero avere per tutti.  Dico “per tutti”, ma non mi viene meno una precisa consapevolezza: si tratta di idee che per molti suonano impopolari o comunque, per diverse motivazioni, improponibili. Ideologismi, pregiudizi, opportunismi, orgogli nazionali, interessi economici, convinzioni, ingenuità, convenzionalismi e conformismi, indifferenza, ideali, inclinazioni culturali e politiche, valutazioni generali o di parte, calcoli utilitaristici e quant’altro può aggiungersi nella formazione dell’opinione e dei costumi o dell’interpretazione della storia, si possono accampare da ogni lato nel deridere, nel tacciare di aleatorietà e di debole velleitarismo le osservazioni ora condotte. Ma al di là di qualsiasi posizione personale ed ufficiale, nazionale o internazionale, rimangono incontestabili alcuni dati e plausibile l’ipotesi che se ne ricava.

Il primo dato incontestabile è che in sede europea le incomprensioni interne, le rivalità, i riversamenti di tensioni, di frustrazioni e le inadempienze nazionali da parte dei singoli stati hanno finora determinato grosse difficoltà alla realizzazione di una sicura ed autonoma consistenza dell’Europa in sé e nel quadro mondiale. Un secondo dato incontestabile concerne la relativa apatia e irresolutezza diffuse nei confronti dell’unione europea, le cui modalità costitutive hanno generato molti stati di disaffezione, a volte insofferenza, o comunque si sono dimostrate prive di un adeguato sentimento di appartenenza. Un terzo dato incontestabile è la graduale diminuzione di peso e di prestigio internazionale che sta affliggendo l’Europa, impedendole di offrire un proprio contributo, che sarebbe insostituibile, agli equilibri mondiali, spesso minacciati alle sue stesse porte. Un quarto dato di fatto è che nessuna delle nazioni europee può accampare la pretesa di egemonizzare in proprio le altre nazioni. Né la Spagna imperiale, né la Francia rivoluzionaria, né la Germania totalitaria, che a loro tempo ci provarono, riuscirono nell’intento. Si potrebbe dire che Francia fallì il tentativo di egemonia sull’Europa, perché intraprese una politica continentale agendo con una mentalità insulare. Il contrario potrebbe dirsi della Germania, che ha anch’essa fallito, avendo intrapreso una politica insulare affrontandola con una mentalità continentale. Ora ci stanno provando dall’esterno gli Stati Uniti, perfino imponendo la loro lingua, e provincializzando di fatto il continente.

L’ipotesi, coerente con questi dati incontestabili, è che vengano superati taluni egoismi nazionali, soprattutto da parte degli stati di maggiore importanza, sì da evitare tra loro alcune aride rivalità, nocive alla consistenza dell’intera compagine europea. Se venisse riconosciuto un ambito di convergenza non semplicemente dettato da accordi e da regole, soggetti gli uni ad essere disattesi e le altre trasgredite o modificate dai più forti, e se, infine, questo ambito di convergenza venisse concepito come mezzo per dar vita ad una convivenza federativa garantita da un orientamento referenziale centrale, nel quale tutti i componenti si riconoscessero, se venissero dunque realizzate con convinzione queste due prospettive essenziali, l’Europa conseguirebbe una posizione molto più solida dell’attuale, a vantaggio della sua stabilità interna e dell’acquisizione di un maggior peso internazionale. Qualora ci addentrassimo nei dati storici in maniera analitica, l’argomentazione troverebbe molte luci chiarificatrici e anche se si scorgessero elementi di fatto e di giudizio che potrebbero anche alterare la prospettiva che stiamo tracciando, il problema di fondo che è stato posto non verrebbe mai meno per chi voglia pensare ad un’Europa dai fondamenti solidi.

Si pone la domanda: come procedere concretamente? Quali sono i passi da compiere in direzione della costruzione dell’asse medio e del recupero di una centralità europea? Non penso che una singola voce – perciò neanche la mia – possa dirlo. Le osservazioni qui avanzate non contengono proposte pratiche e precise scelte di azione; vogliono solo orientare le menti e la disposizione degli animi di chi abbia a cuore le sorti dell’Europa. Si deve ricordare che, a prescindere dal loro orientamento, si finisce per perseguire, nella politica europea, obbiettivi ritenuti prevalenti su quelli che pongono in primo piano le sorti dell’Europa. L’alternativa è precisa: se l’obbiettivo è dare all’Europa una reale consistenza, la via da seguire deve contemplare una centralità tedesca nei termini che abbiamo delineato; se invece gli obbiettivi sono altri, allora tutto quanto abbiamo detto – siamo disposti ad ammetterlo – è assolutamente privo di qualsiasi importanza. Se è invece recepito un sentimento di appartenenza e sentita la necessità che l’Europa riacquisti un suo ruolo adeguato nel mondo, quanto abbiamo qui esposto in maniera sommaria è preliminare ad ogni disposizione strategica. Il come agire di conseguenza, ciascuno a cui stanno a cuore i destini dell’Europa deve chiederselo; così come, a seconda delle loro competenze e responsabilità, se lo devono chiedere anche le istituzioni pubbliche. Ma non basta, perché occorre anche aiutare la Germania a liberarsi dall’idea di associare l’essere tedesco a caratteristiche nazionalistiche – che fra l’altro non mai state nella sua tradizione – mentre chi non vede di buon occhio una più libera e più consistente Europa ha interesse a tenere vivo quel falso sentimento. In questo anche il suo passato totalitario viene sfruttato da taluni come una perpetuazione di quarantene, utili a strumentalizzazioni antieuropee.

Ogni paese, ogni area, dovrebbe individuare, conformemente alle sue vocazioni e ai suoi interessi, una propria modalità, diretta o indiretta, esplicita o implicita, di pensarsi contessuta con la centralità europea di cui abbiamo parlato. Occorre, prima di tutto, avere la consapevolezza della sua necessità, salvo che si ritenga di considerare la compattezza europea nei rapporti internazionali una variante in subordine. Che le macro-dinamiche che attraversano tali rapporti corrano lungo l’asse est-ovest e si polarizzino su Nord- America ed Asia è un dato di fatto incontestabile ed ineludibile e anche l’ipotesi dell’Europa come terzo polo va ragionevolmente sempre più riducendosi; non ci sarebbe nemmeno da sorprendersi che arrivasse a ridursi a semplice espressione geografica. E’ realistico ritenere che l’Europa non possa più aspirare a quella centralità che, nella sua tumultuosa e irriducibile vitalità, fino a non molti decenni fa era orgogliosa di attribuirsi; non è pensabile, infatti, che l’Europa possa avanzare pretese di protagonismo e di farsi nucleo propulsore di strategie mondiali, ma ciò non giustifica affatto la sua resa semincondizionata alla periferizzazione, che si autoimpone, e non rende meno preziosi al mondo intero la sua ricchezza culturale plurilinguistica e il patrimonio creativo e civile che questa custodisce.

Giulio M. Chiodi

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