Lettera sulla pedagogia (dicembre 2014)
Non sono un pedagogo e mi limito, perciò, a considerare dall’esterno gli effetti della pedagogia praticata nei primi anni dell’attuale scuola italiana, chiedendomi che cosa più in generale li determini.
Innanzitutto, ignorando completamente la complementarità dei due principî vitali, maschile e femminile, la pedagogia si è sviluppata impropriamente e unilateralmente come pedagogia quasi soltanto materna, ossia iperprotettiva dei bambini, insulsamente condiscendente, irriflessivamente tutoria. Il principio paterno, che stimola alla prestazione e alla conquista del merito personale, è invece diluito e confusivo e mai inteso, come dovrebbe essere, distinto e complementare a quello materno. L’esito è di generare ragazzi, e poi adulti, terribilmente fragili, viziati e pretenziosi; già sui 16 e 18 anni, e talvolta anche prima, un gran numero di giovani, incapaci di misurarsi con la vita, cade nella depressione o coltiva l’aggressività, due facce della medesima condizione, l’una rivolta contro di sé e l’altra contro gli altri. E’ la fragilità di chi si sente a priori beneficiario o vittima, bisognoso di sapersi costantemente difeso e che pretende di essere in ogni caso accudito e protetto. La sua educazione è orientata verso questi esiti. Nei casi meno patologici subentrano come effetti soltanto l’apatia, l’indifferenza, l’abulia.
L’accusa da rivolgere contro la scuola è precisa: è d’aver messo in disparte e completamente ignorato il suo compito più importante, che è avviare alla formazione del carattere. La scuola elementare, ma in questo caso anche la media, hanno rinunciato a questo compito, che è lo scopo fondamentale della loro istituzione, accanto al tradizionale far “leggere, scrivere e far di conto” delle elementari e offrire i rudimenti basilari del sapere alla media .
Spesso si assecondano l’indole e le inclinazioni personali del bambino, senza pensare di dotarlo del sostegno della volontà, che appunto plasma il carattere, le cui deficienze compromettono l’autocontrollo, l’autodisciplina, la responsabilità dei propri comportamenti, la consapevolezza della necessità di dover obbedire a un principio di prestazione. Formazione del carattere vuol dire, per il bambino, imparare a misurare le proprie forze, i propri mezzi ed ad affrontare le difficoltà anche da solo, perché non deve mai abituarsi a scaricare le responsabilità solo sulla collettività o sul contesto di cui di volta in volta fa parte. La pedagogia imperante è nel merito pesantemente carente, mostrandosi improntata a quella che possiamo definire una volontà di impotenza. La volontà di impotenza ispira un genere di socializzazione che, anche contro le intenzioni, finisce per favorire nel bambino, in luogo del senso di responsabilità, forme represse di “delirio di onnipotenza”. Su questo presupposto si generano giovani esposti a soffrire stati depressivi, che si trascinano negli anni.
La fragilità del giovane consuma in lui il senso di sé proprio in una criptata volontà di impotenza; fragilità, che spesso si maschera sotto l’arroganza o l’emergere di bisogni grossolanamente conformistici. In entrambi i casi, sia di depressione sia di prepotenza, l’assenza di autodirettive e di un efficace spirito di autocontrollo azzera le condizioni necessarie all’equilibrio interiore, impedisce di mantenersi in asse con se stessi e predispone alle psicodipendenze con disconoscimento delle proprie effettive potenzialità.
Si insiste pubblicamente sulla proclamazione di diritti di ogni genere, ma si contrasta nel giovanissimo lo sviluppo del senso del dovere, e in tal modo lo si disarma di fronte agli allettamenti del più forte, chiunque esso sia, e si semina in lui qualcosa che assomiglia alla paura della vita, perché l’eludere la concreta messa alla prova di se stessi comporta alla fine anche la paura di se stessi, della propria inconsistenza, di scoprirsi indifesi e privi della reale libertà del proprio essere. Il bisogno tutorio e della sua continua riconferma dall’esterno prepara il bambino ad essere eterodiretto dagli strumentalizzatori sociali e dai gestori dell’opinione pubblica.
La pregiudiziale affermazione del predominio dei diritti sui doveri, che si va insistentemente inculcando in animi ancora acerbi, offusca appunto l’educazione al dovere (che fra l’altro e per sua natura non favorirebbe affatto atteggiamenti dettati dalla volontà di impotenza): dovere significa chiamata in causa della responsabilità personale, abitudine a canalizzare la propria volontà e a tracciare i limiti alla libertà che esso presuppone. Ribadire continuamente l’affermazione di diritti, sottacendo la priorità dei doveri, comporta di fatto l’affermazione di una prioritaria subordinazione all’altro (l’altro indefinito, su cui dovrebbero gravare i doveri), dal quale solo si pretende, senza avere di esso precisa contezza.
La vergognosa e colpevole trascuratezza durante i primi anni di scuola nei confronti della formazione del carattere fa crescere, infatti, nella convinzione che ci sia sempre da qualche parte qualcuno che deve provvedere ai nostri bisogni: così si atteggia il figlio nei confronti dei genitori, così il cittadino nei confronti dello stato, così il singolo nel confronti degli altri o di tutti. La responsabilità si scarica sempre sull’altro, anche quando indefinito. Il ragazzo, diseducato dalla pedagogia vigente e abituato a scaricare sempre le responsabilità su altri, cresce ritenendo che l’altro, da chiunque sia esso rappresentato, debba comunque farsi carico sempre dei bisogni, delle carenze, delle insoddisfazioni, dai quali, prima o poi, il ragazzo stesso sarà inevitabilmente colpito.
Preoccuparsi della formazione del carattere – che, ripeto, è il compito specifico ai quali i primi anni di scuola non si devono sottrarre – significa fare apprendere l’autodisciplina, sollecitando a conoscere e a controllare le proprie emozioni, ad esercitare l’intelligenza, a responsabilizzarsi delle proprie azioni e dei risultati ottenuti, a gestire gli impulsi, a orientare e finalizzare le proprie energie, a prepararsi a valorizzare un proprio ponderato giudizio sulle cose, misurando primariamente le proprie capacità di affrontarle. Il riconoscimento dei meriti personali e le adeguate ammonizioni, per non dire le ragionevoli punizioni, (a volte potrebbe starci bene il tradizionale e misurato scappellotto, che morbose idee correnti considerano gesto brutale, passibile di reato penale) sono essenziali per incominciare a temprare il carattere e, di conseguenza, per insegnare anche a valutare con maggior discernimento le difficoltà del vivere, del come sapersi regolare con gli altri e del riconoscere, dove occorre, autorevolezze da rispettare, ingiustizie da contrastare; in una parola, sono fattori che contribuiscono a costruire nel bambino l’attitudine a sapersi autoregolare nel mondo che l’attende.
Nel contempo la preoccupazione dominante della scuola elementare e media non sembra affatto essere la formazione personale del ragazzo, ma, in maniera pregiudiziale, un sua supposta e generica socializzazione; si provvede ad assuefare il futuro giovane a contesti socializzanti che, in ultima analisi, predispongono alla psicodipendenza dai luoghi comuni imposti dalla società di massa. Assecondare l’indole personale e la socievolezza in contesti comuni senza accompagnarne la cura col rigore che induce all’autodisciplina significa predisporre un essere indifeso, pronto a venire soggiogato da suggestioni esteriori e ad essere facilmente coatto senza avere mezzi per accorgersene. Senza addestrare la presa di giuste distanze e misure tra la psiche personale e le forme di convivenza si formano individui privi di mezzi critici di fronte alle aggressioni subdole degli ideologismi correnti o del mercato imposto dai più forti, individui esposti all’indifferenza apprensiva, caratteristica del sentire di chi, poco responsabile di se stesso, abbisogna di condividere superficialmente atteggiamenti comuni, dei quali poi nell’intimo non si sente effettivamente partecipe. Indifferenza, diciamo, come incapacità di distinguere, e apprensiva in quanto costitutivamente ansiogena.
Inculcare questo genere di psicodipendenza in un essere ancora in maturazione fa sospettare che si obbedisca a strategie collettive, miranti di fatto al disarmo intellettuale, onde predisporre una natura di membro di una massa indistinta, esprimente quello che possiamo definire come individualismo di massa.
Il bambino viene predisposto, una volta cresciuto, ad accogliere acriticamente i messaggi di massa. La comunicazione di massa richiede soggetti indifferenziati e serializzabili, intellettualmente e moralmente disarmati, eterodiretti, facilmente suggestionabili e plasmabili da bisogni effimeri. Questo genere di massificazione prospera sulla miopia intellettuale e sulla miopia idioaffettiva, che fanno vedere le cose solo a corto raggio, a contatto diretto e immediato, senza concedere spazio ed adeguate distanze psicologiche necessarie alla consapevolezza, alla riflessiva libertà di giudizio e alla reale acquisizione di senso. Per quanto possa apparire paradossale, la comunicazione di massa, che monopolizza la comunicazione con la potenza e la capillarità dei suoi media, impedisce anche la libera circolazione delle idee, non solo perché le monopolizza e le manipola, ma semplicemente perché fa a meno delle idee, o addirittura le teme e le osteggia. E’ per questo motivo, per esempio, che la comunicazione di massa esige dalle scuole di ogni ordine e grado che sia tenuto alquanto basso il tasso di formazione umanistica, perché si sa che ad alto tasso di formazione umanistica corrisponde un basso tasso di strumentalizzazione di massa, giacché nel suo intimo la comunicazione di massa è, in ultima analisi, orientata al nichilismo.
Anche se intendo rimanere sulle generali, farò cenno a qualche parziale esemplificazione.
Si era giunti nel 1990 all’abolizione dell’insegnante unico nelle classi elementari, poi giustamente il governo italiano è corso ai ripari con tardivo pentimento. Quel provvedimento improvvido era esattamente un’espressione della logica didattica che qui sto contestando; favoriva il disorientamento della psiche del bambino, privandolo di un preciso riferimento autoritativo e direttivo, necessario alle reazioni psicoaffettive del suo essere ancora in via di sviluppo. Ma si pensi anche alle disposizioni intese a stabilire una particolare collaborazione tra scuola e famiglia; non già per il principio in sé, che può avere buone ragioni per essere apprezzato, ma per come attuato, che ha comportato l’incombere sul bambino di un complesso relativamente confuso tra famiglia, scuola e comunità civile in generale. La naturale affettività del bambino recepisce questo contesto tutorio senza imparare a misurarsi con esso e con le sue distinte componenti e senza imparare a discernere ciò che può essere dotato di una specifica autorevolezza da ciò che lo è meno o non lo è affatto. Per non dire degli effetti della gestione della scuola, quando questa finisce affidata ad organismi misti di insegnanti, genitori e funzionari, che giocano a parodiare forme pseudo-democratiche di politica amministrativa.
Anche l’abbigliamento dello scolaro non è di secondaria importanza. Da molto tempo è stata contestata l’adozione in classe di una tenuta uniforme, adducendo pateticamente che rifletterebbe un modello educativo ritenuto antiautoritario, anche qui avversando l’educazione all’autodisciplina. Un tempo nelle scuole elementari era infatti obbligatorio per lo scolaro indossare un grembiule nero, corredato da un collettino bianco; qualche scuola adottava anche proprie divise. Indipendentemente dall’una o dall’altra foggia, che gli scolari avessero uno specifico abbigliamento uguale per tutti è stato contestato dalla pedagogia in auge, perché vi ha ravvisato una specie di uniforme giudicata… filofascista! (sic!): quella tenuta non sarebbe stata democratica! Gli ideologismi conducono anche agli estremi dello sragionare, per non dire della stupidità. Quella tenuta, all’origine, aveva motivi igienici, ma esprimeva anche altro: consapevolezza di uno status. L’uniformità esteriore di un abbigliamento per la scolaresca in via di principio non ha assolutamente nulla di oppressivo, non tocca le prestazioni personali del singolo scolaro, può invece infondere un benefico spirito di ordine e di appartenenza, che aiuta l’autodisciplina e richiama a un impegno di decoro comune, senza alcuna invasività cogente sulla psiche. Il modo di vestire dello scolaro non è un particolare del tutto trascurabile nell’educazione del bambino, perché aiuta a sostenere la consapevolezza del proprio impegno, abitua ad aver cura del modo di presentarsi, e al tempo stesso a sentirsi membro alla pari di una comunità di appartenenza, nella quale conta il rispetto reciproco anche in cose esteriori.
Un altro segno di rilassatezza del costume scolastico corrente è la contestazione del tema scritto, sollevata da molti insegnanti. Considero un esempio di irresponsabilità, se non di strategia didatticamente perversa, l’uso invalso in talune scuole medie di non assegnare più agli alunni la stesura di componimenti scritti. Uno dei fattori determinanti della costituzione di una forma mentis, invece, è proprio la capacità di contestualizzare nozioni ed argomenti, che la stesura di un testo organicamente concepito (quale deve essere un componimento scritto) è particolarmente idonea ad esercitare, capacità che spesso viene frustrata dall’ uso dei cosiddetti quiz, che concepiscono isolatamente le nozioni, disabituando la mente in formazione a concepire contestualizzazioni organiche, e quindi l’attribuzione di senso alle informazioni trattate. A parte l’arricchimento e il perfezionamento linguistico che comporta la stesura di un componimento, che può avere i contenuti più svariati (Jünger proponeva di sottoporre all’osservazione un semplice oggetto qualunque, provandosi a descriverlo e a parlarne), questo ha un valore elevatissimo nella formazione del ragazzo. La scrittura comporta una messa alla prova di libertà e di disciplina insieme, dove l’analisi intuitiva e la creatività personale si coniugano con lo spirito di osservazione, col rigore logico e con l’architettonica compositiva e del ragionamento, dove la concentrazione intellettiva, la ricerca tematica, l’informazione e le prestazioni espositive inducono all’ampliamento e alla precisione lessicale e concettuale, e dove si raffinano la riflessione e la capacità di contestualizzare gli argomenti, di individuare connessioni e comparazioni, di costruire accostamenti, scoprire analogie, omogeneità, disomogeneità, gerarchie di importanza, di esercitare procedimenti di induzione, di deduzione, e l’interpretazione di cose ed accadimenti, dove si effettua l’autocontrollo delle scelte e del giudizio, si registrano le complessità dei fenomeni, le reazioni emotive, le prospettive della realtà e dell’immaginazione e si coglie più approfonditamente il senso che si attribuisce a ciò che si vede, si pensa, si fa. Il tradizionale tema scritto costituisce per il ragazzo la messa alla prova del proprio percepire e ragionare, del saper organizzare pensieri, sensazioni, descrizioni, narrazioni e formulare idee ed ideali nei debiti spazi intuitivi, logici ed espressivi; detto in sintesi, il tema scritto stimola la curiosità del mondo, interiore ed esteriore, insegna a conoscere meglio la propria natura e le proprie capacità, provoca aperture della mente e dell’intuito e potenzia il lessico espressivo, che è anche uno strumento insostituibile delle funzioni analitiche e delle operazioni di concettualizzazione in generale.
L’impegno esclusivamente personale dello scolaro nell’affrontare per proprio conto talune difficoltà, basilare per la formazione del carattere, sembra essere generalmente troppo disatteso, anche in virtù della tendenza ad eliminare i compiti a casa. Avere doveri da assolvere da soli vuol dire imparare a stare con se stessi, ma non in forma olistica e avulsa dal mondo, bensì misurata dall’impegno assunto e con l’animo di chi sa di dover rendere conto del proprio operato. Il fare da solo qui vuol dire abituarsi a prendere le adeguate distanze dagli altri e dalle cose, il che consente anche di conoscere meglio gli altri e le cose e di saper meglio stabilire i dovuti rapporti e trovare i modi di relazionarsi. La carenza della capacità di questa giusta presa di distanza rende impossibile anche il vero incontro e il vero rapporto con gli altri e con le cose, su cui si fondano con equilibrio tanto la soddisfazione quanto la prestazione, tanto la fiducia quanto la sfiducia. E’ assurdo che l’educazione imperante, preoccupata quasi solo della socializzazione, pensi che accompagnarla al pensare e al fare da soli preluda all’asocialità e che il misurare in prima persona le proprie forze sia soltanto atto a generare l’egotismo. Diventa allora plausibile ritenere che obbiettivo della scuola sia diventato il predisporre che le potenzialità personali non si debbano esprimere, oppure il riprodurle e sfruttarle in forme seriali da parte di una società che, nei suoi consumi e relazioni artificiali, si serva solo di esseri eterodiretti e di automi omologabili; chi vi si sottrae è destinato all’alternativa o di rinunciare a sé stesso o di coltivare nevrosi.
In conclusione, si sono imposti vedute e costumi che tendono ad eliminare tanto l’autorità dell’insegnante quanto la dignità dell’ambiente scolastico in quanto tale, senza che ci si renda conto, con ciò, di abbandonare i ragazzi, ostacolati nello sviluppo della libertà interiore e della maturazione di capacità selettive, a chi più esercita potere ed influenza nella società. Qui si tocca un punto nodale: si tratta della rinuncia da parte della scuola di curare una saggia selezione tra gli scolari, una volta ancora motivata da un malinteso obbiettivo di socializzazione. E’ evidente che la mancata selettività tra gli scolari, con cui si valorizzano i migliori nel merito, insieme alla tendenza ad una conduzione didattica a livelli mediobassi per non tracciare disuguaglianze, penalizza e demotiva l’impegno e l’intelligenza. Ma la selezione che non farà la scuola verrà fatta fuori dalla scuola, e secondo criteri che non sempre sono accettabili da un costume civile. Così si discredita direttamente anche il lavoro degli insegnanti. La scuola, non solo per chi la frequenta, deve essere di guida alla società, non un suo rimorchio, e ciò vale per ogni suo ordine e grado. Di fronte al giudizio competente dell’insegnante, che si deve supporre corretto, il ragazzo deve imparare a riconoscere in generale il valore in sé della competenza, a rendere conto del proprio agire e ad abituarsi ad affrontare l’inevitabile dover rendere conto a qualcuno del proprio operato; altrimenti, al primo impatto con l’ambiente, che certamente non si mostrerà generoso nei suoi confronti, chi è stato educato sotto l’egida assolutamente protettiva del maternalismo famigliare e scolastico si ritrova sprovveduto, con scarsa energia nell’impegnare le proprie forze e, senza accorgersi, finisce infine per entrare in conflitto perfino con se stesso.
Queste brevi osservazioni, impressionistiche e stese di primo acchito, non contengono proposte pedagogiche, perché si concentrano esclusivamente sulla denuncia della vistosa crescita del numero di giovani che si dimostrano incapaci di organizzare con serietà gli impegni di studio e di lavoro, che si mostrano pretenziosi di forme assistenziali, troppo svagati e distonici di fronte agli oneri che loro competono, psicologicamente impreparati a potenziare e attrezzare intellettualmente le risorse personali; e tra essi paiono altresì in aumento i casi patologici. Le cause del fenomeno sono molteplici e certamente non tutte imputabili alla scuola, la cui importanza è sottovalutata a incominciare dal cattivo trattamento economico e professionale riservato agli insegnanti. Ma questo non è un motivo, per il quale i primi anni scolastici, che sono decisivi per la formazione degli equilibri psico-affettivi dei futuri giovani, debbano trascurare la loro funzione principale, che è, ripeto ancora una volta, dare la prima impronta alla formazione personale del carattere. I primi passi si compiono nei primi anni di scuola, e rimarranno decisivi per tutta la vita. Ho la sensazione che quella che ho chiamato, forse con qualche enfasi, volontà di impotenza pervada le ideologie ispirative degli attuali ordinamenti della scuola primaria in generale e sia subdolamente sottesa alle sue pratiche. Fatte salve le rare eccezioni di insegnanti realmente intelligenti e preparati, che comprendono l’importanza di tenere vivi dei principî autoritativi e di evitare l’evanescenza del principio maschile, urge rivedere radicalmente l’impostazione regressiva sulla quale si è impostata la formazione degli alunni più giovani.
Giulio M. Chiodi
Forse che oggi la predominanza del principio materno in campo educativo sia una inevitabile reazione ad un princio paterno esclusivamente dominante ed autoritario per molti secoli?principio che ha ammantato di riduzionismo l’esistenza e l’educazione degli uomini del passato…una carissima amica,ormai trasvolata da qualche anno,mi diceva sempre con una punta e non solo di saggia ironia “rassicurante la razionalità,vero?!”
Ciò che è rassicurante come la protezione materna in realtà sconfina con un elemento femminile dalle tinte emozionali irrazionali potenzialmente disgreganti…ben poco rassicurante.La sfida interiore che per secoli si è intenzionalmente dimenticato di combattere cercando esternamente sicurezze logiche e razionali ora è totalmente servita su un piatto d’argento,una bella prima portata direi,per tutti quegli esseri giovani e meno (cresciuti con il sistema educativo odierno o passato)che si vogliono cimentare nel gran mar dell’essere…il puer ed il senex non avrebbero prima o poi dovuto incontrarsi secondo C.G.Jung? (“il puer può essere visto come l’azione che non conosce e quindi essere pensato come il fanatico e il senex come la conoscenza che non agisce e quindi essere pensato come il cinico.si tratta di una sintesi che può essere sanata se avviene la congiuntivo…”Eugenio torre,tratto da “il fascino del rischio negli adolescenti”)